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Le controverse modifiche dell’ordinamento delle Camere di commercio

di
Gaetano Armao
Professore di diritto pubblico dell’economia -Universitas Mercatorum – Roma

È un massiccio riordino quello che si prospetta per le Camere di commercio italiane a seguito dell’insediamento del Governo Renzi che ha individuato le istituzioni camerali tra le prime da sottoporre ad una profonda modifica ordinamentale ed organizzativa.

Di seguito alcune considerazioni sui testi elaborati dal Governo alla luce dei principi delineati dal legislatore ed interpretati, nel tempo, dalla giurisprudenza costituzionale ed amministrativa.
1) SULLE DISPOSIZIONI DEL d.d.l. Riforma della P.A.
Una prima questione attiene all’applicazione dell’art. 9 del d.d.l “Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” (A. S. n. 1577), rubricato ‘abolizione dell’onere del contributo delle imprese nei confronti delle camere di commercio e trasferimento del registro delle imprese’.
La previsione normativa appare modificata rispetto al testo approvato il 10 luglio 2014 dal Consiglio dei Ministri che introduceva, al primo comma, una serie di modifiche alla l. n. 580 del 1993 e s.m.i. con l’obiettivo di elidere dall’ordinamento l’istituzione del registro delle imprese di cui all’articolo 2188 c.c. presso la camera di commercio l’ufficio e di individuare la compagine delle imprese costituenti il sostrato dell’ente camerale – “espressione del sistema delle imprese” del territorio, secondo la giurisprudenza costituzionale (sent, n.374 del 2007) – individuate in quelle che hanno la sede legale nel relativo territorio (e quindi senza più alcun riferimento all’iscrizione al predetto registro).
Senza entrare nel merito di tale discrasia (purtroppo divenuta prassi negli ultimi mesi e per la quale occorre verificare se un nuovo deliberato del Consiglio dei Ministri e’ comunque intervenuto), va sottolineato che la disposizione prevede adesso la delega al Governo, da esercitare entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge (con ulteriori dodici mesi per disposizioni correttive ed integrative), per l’adozione di uno più decreti legislativi per la riforma dell’organizzazione, delle funzioni e del finanziamento delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura.
Per l’adozione del/i decreto/i legislativo/i vengono formulati – questa volta più analiticamente rispetto alla versione originaria – i seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) eliminazione del diritto annuale a carico delle imprese;
b) ridefinizione delle circoscrizioni territoriali, con riduzione del numero mediante accorpamento sulla base di parametri basati sul territorio e sul numero delle imprese;
c) riduzione dei compiti e delle funzioni, limitando e individuando in modo tassativo gli ambiti di attività nei quali svolgere la funzione di promozione del territorio e dell’economia locale ed eliminando duplicazioni con altre amministrazioni pubbliche, limitando le partecipazioni societarie alle sole funzioni istituzionali e circoscrivendo nel tempo quelle non essenziali e gestibili secondo criteri di efficienza da soggetti privati;
d) trasferimento al Ministero dello sviluppo economico delle competenze relative al registro delle imprese, con individuazione delle relative modalità di gestione, garantendo la continuità operativa del sistema informativo nazionale vigente, e avvalimento delle amministrazioni competenti a livello territoriale con adeguate soluzioni di sostenibilità finanziaria del sistema complessivo;
e) riduzione del numero dei componenti dei consigli e delle giunte, nonché delle unioni regionali e delle aziende speciali, riordino della disciplina dei compensi dei relativi organi, prevedendo la gratuità degli incarichi diversi da quelli nei collegi dei revisori dei conti, definizione di limiti al trattamento economico dei vertici amministrativi delle medesime camere e delle aziende speciali;
f) disciplina transitoria che assicuri la sostenibilità finanziaria e il mantenimento dei livelli occupazionali e contempli poteri sostitutivi per garantire la completa attuazione del processo di riforma, anche mediante la nomina di commissari in caso di inadempienza da parte delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura.
Si tratta di una scelta che più ponderatamente il Governo ha fatto rispetto all’iniziale testo approvato che prevedeva- puramente e semplicemente, senza cioè alcuna ponderazione di impatto finanziario sugli enti pubblici interessati ne sull’Amministrazione statale ed alcuna analisi di fattibilità che ne garantisca il rendimento – il trasferimento del registro delle imprese al Ministero dello sviluppo economico.
Ed infatti, la precedente versione prevedeva, al fine di offrire il necessario compendio alla laconica decisione che per l’attuazione (la disciplina) della fattispecie la normativa applicativa, in termini del tutto generici e difficilmente compatibili con le note prescrizioni in materia del Giudice delle leggi, si ricorresse ad un Dpcm al quale spetta di individuare le modalità per il trasferimento e la gestione nonché ‘i competenti uffici ai sensi dell’art. 2188 del codice civile, garantendo la continuità operativa del sistema informativo nazionale vigente’.
Emerge dalla semplice lettura dello schema normativo adesso depositato al Senato il contesto,seppur attenuato, di incertezza nel quale si colloca il trasferimento ed il successivo affidamento della gestione del delicato strumento del registro delle imprese, peraltro apparentemente privo di copertura finanziaria.
Infatti, la riduzione del diritto annuale sancita dall’art. 28 del d.l. n. 90 del 2014 – sul quale si rinvia alle considerazioni che saranno svolte nel prosieguo di questo breve approfondimento -alla quale dovrebbe seguire la eliminazione dovrebbe lasciar destinate alle stesse Camere di commercio risorse comunque rinvenienti dall’art. 18 della l. n. 580 del 1993 e s.m.i., mentre non si individuano i costi per l’Amministrazione statale alla quale la stessa deve far fronte per sostenere la gestione, anche mediante affidamento a terzi.
A meno di prevedere oneri aggiuntivi a carico del sistema delle imprese, in guisa da realizzare un sistema perverso in base al quale, da un lato si intendono ridurre gli oneri a loro carico, dall’altro si precostituiscono le condizioni per determinarne l’inevitabile incremento.
Ne’ può ritenersi che tale copertura finanziaria possa essere offerta, ex post, dal decreto attuativo (ancor meno poteva esserlo dal Dpcm previsto dal secondo comma della precedente versione dell’articolo in questione) in ossequio ai principi stabiliti dalla l. n. 196 del 2009 (art. 17 e ss.) e s.m.i. in attuazione dell’art. 81 Cost. Ed in questo senso non sembra dirimente la conclusione della Ragioneria generale che, nel formulare la c.d. “bollinatura’ ritiene a tal fine esaustivi i risparmi che la norma consente di conseguire, mentre restano neanche latamente affrontati gli effetti sugli equilibri di bilancio degli enti camerali.
Ed infatti, giusta l’art. 17, secondo comma, della normativa da ultimo richiamata: “Le leggi di delega comportanti oneri recano i mezzi di copertura necessari per l’adozione dei relativi decreti legislativi”. Mentre solo eccezionalmente “qualora, in sede di conferimento della delega, per la complessità della materia trattata, non sia possibile procedere alla determinazione degli effetti finanziari derivanti dai decreti legislativi, la quantificazione degli stessi e’ effettuata al momento dell’adozione dei singoli decreti legislativi”. in tal caso “i decreti legislativi dai quali derivano nuovi o maggiori oneri sono emanati solo successivamente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi che stanzino le occorrenti risorse finanziarie. A ciascuno schema di decreto legislativo e’ allegata una relazione tecnica, predisposta ai sensi del comma 3, che da’ conto della neutralita’ finanziaria del medesimo decreto ovvero dei nuovi o maggiori oneri da esso derivanti e dei corrispondenti mezzi di copertura”.
Nessun riferimento si scorge all’esistenza di elementi che inducono a ritener inverata la segnalata situazione di particolare complessità e’ dato rilevare nei documenti elaborati dal Governo.
Il secondo comma della disposizione, modificando profondamente la sbrigativa prospettiva che lo aveva generato, prevede adesso il coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni e delle commissioni parlamentari, pur introducendo stretti termini per la definizione del procedimento approvativo, sicché può ritenersi accolto l’invito ad una più consistente compartecipazione istituzionale alla riforma della materia.
Ne discende una prima conclusione: la norma risulterebbe affetta da profili di incostituzionalità per la indeterminatezza degli effetti finanziari sia sugli enti camerali interessati che sulla stessa amministrazione dello Stato, (con molta probabilità) implicitamente rinviati alla sintesi della normativa delegata (precedentemente non si faceva riferimento ne’ alla delega legislativa, ne a quella regolamentare) con la conseguenza di rendere in parte indeterminati gli effetti finanziari per le amministrazioni coinvolte.
Sotto altro profilo va osservato che l’evidenziata carenza di copertura finanziaria (ma in tal senso la disposizione va correlata a quella del decreto legge in corso di conversione) ridonda sugli equilibri finanziari degli enti camerali.
Ed infatti, a presidio della normativa delegata della norma del d.d.l. viene posta soltanto la continuità operativa del sistema, nulla prevedendosi sul contenimento o, almeno, mantenimento dei costi, sul regime delle risorse umane e strumentali ivi impiegate che vengono, conseguentemente, affidati a scelte avulse da qualsiasi valutazione ex ante.
Va poi sottolineato che la (ancora vigente) riforma del titolo V della Costituzione del 2001 – come si e’ sostenuto pur se con qualche eccesso – avrebbe consolidato ed ampliato la scelta a favore della competenza regionale, compiendo il passo ulteriore di attribuire la materia «camere di commercio» alla competenza esclusiva delle Regioni, sulla base della clausola di residualità di cui all’art. 117, quarto comma, della Costituzione e ciò nel presupposto che le materie riferibili allo sviluppo economico ed alle attività produttive (tra cui l’agricoltura, l’industria, l’artigianato, il turismo, il commercio) dovrebbero ritenersi assorbite in tale competenza legislativa regionale.
Sul punto il Giudice delle leggi, se ha ricordato che alle Camere di commercio, sono attribuiti compiti che richiedono “di essere disciplinati in maniera omogenea in ambito nazionale”, e ciò a partire dalla tenuta del registro delle imprese, “funzione che deve essere esercitata sulla base di una disciplina uniforme, al fine di realizzare condizioni di mercato caratterizzate da trasparenza e stabilità informativa su tutto il territorio nazionale”, ha comunque precisato che a seguito della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, è consentito allo Stato esercitare la potestà legislativa in materia di ordinamento delle camere di commercio in quanto sia ravvisabile un’esigenza di esercizio unitario a livello statale di determinate funzioni amministrative e ciò pure se tali funzioni amministrative siano riconducibili a materie di competenza legislativa regionale concorrente o residuale (così Corte Cost. sent. nn. 88 del 2007, n. 383, n. 285, n. 270 e n. 242 del 2005, n. 6 del 2004, n. 303 del 2003), in simili casi l’intervento statale deve essere proporzionato all’esigenza di esercizio unitario a livello statale delle funzioni di cui volta per volta si tratta (sent. 5 novembre 2007, n. 374).
Conseguentemente, sotto tale profilo, è stato considerato “congruo il mantenimento della competenza statale ad emanare – previa intesa con le Regioni – norme relative alle modalità di costituzione dei consigli camerali”, mentre è risultato eccessivo, in un contesto in cui “comunque è la Regione ad esercitare sia la funzione amministrativa relativa alla determinazione del numero dei rappresentanti la cui designazione spetta a ciascuna organizzazione imprenditoriale, sia quella di controllo e di scioglimento dei consigli medesimi in caso di gravi e persistenti violazioni di legge o di impossibilità di normale funzionamento (art. 37, comma 3, del d. lgs. n. 112 del1998)”, ad esempio conservare in capo allo Stato un rimedio amministrativo avverso le determinazioni dell’autorità regionale attuative della disciplina posta a livello nazionale.
Al di la della peculiarità della fattispecie richiamata quel che non può revocarsi in dubbio e’ che, a seguito della riforma costituzionale del 2001, l’Ordinamento delle Camere di commercio possa essere ritenuto di esclusiva pertinenza statale soltanto in quanto sia ravvisabile la segnalata esigenza “di esercizio unitario a livello statale di determinate funzioni amministrative”.
Parimenti non va dimenticato che l’applicazione della art. 7 della l. n. 131 del 2003 e s.m.i., che si pone quale norma di attuazione diretta dell’art. 118 della Costituzione in materia di esercizio delle funzioni amministrative e di sussidiarietà orizzontale (principio strutturale dell’ordinamento in diretta correlazione con il precedente art. 5) e nel contesto della quale e’ esplicitamente previsto riferimento alle ‘attribuzioni degli enti di autonomia funzionale’, e’ stato ritenuto dalla Corte costituzionale non applicabile alle autonomie differenziate (sent. n. 236/2004).
Tale conclusione è stata raggiunta con riferimento a quanto prescritto dal successivo art. 11 della medesima normativa di attuazione della riforma costituzionale del 2001 che rinvia al singolo negoziato Stato-Regione ed alla conseguente emanazione delle norme di attuazione dei rispettivi statuti per la regolazione delle fattispecie.
Ebbene non può revocarsi in dubbio che una drastica riduzione del finanziamento delle Camere di commercio (come quella operata dal citato decreto legge in corso di conversione), ed, a fortiori, il trasferimento all’amministrazione dello Stato della gestione del Registro delle imprese (previsto a regime dalle richiamate disposizioni del d.d.l. all’esame del Parlamento) -ammesso e non concesso che siano pacificamente ammissibili senza una modifica espressa della normativa di attuazione costituzionale -, incidono pesantemente sul riparto delle funzioni amministrative prescindendo dal considerare, tra l’altro, la sfera di attribuzione delle autonomie speciali così come declinata dalla stessa giurisprudenza costituzionale.
Peraltro la circostanza che la vigilanza ed il controllo sulle Camere e’ ripartito tra Stato e Regioni, anche con riguardo al rispetto degli equilibri di bilancio, determina che ogni scelta che incide su tali equilibri, postulando se non imponendo l’intervento regionale, determina che possa escludersi la pertinenza esclusiva alla potestà legislativa statale.
Ed in questo senso basti ricordare la l.r. n. 4 del 2010 della Regione siciliana che all’art. 3 ha confermato (quanto già previsto dalla l.r. n. 29 del 1995) con riguardo allo scioglimento dei consigli camerali che allo stesso provvede “con decreto del Presidente della Regione, previa deliberazione della Giunta regionale:….c) quando non è approvato nei termini il preventivo economico o il bilancio di esercizio”.
Ebbene, come segnalato dal Presidente dell’Unioncamere in occasione dell’audizione presso la Camera dei Deputati l’8 luglio scorso (“Indagine conoscitiva nell’ambito dell’esame del disegno di legge di conversione in legge del Decreto-legge 24 giugno 2014 n. 90 recante misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari” -A.C. 2486), proprio con riguardo alle Camere di commercio della Sicilia tale scelta avrebbe effetti particolarmente critici, tanto da condurle al default già dal prossimo anno.
Come noto, infatti, le Camere di commercio hanno accantonamenti insufficienti a finanziare la corresponsione delle pensioni, sicché necessitano di un’integrazione annuale a valere sulla parte corrente dei bilanci di circa 23 milioni di euro (esattamente corrispondente alla riduzione che intende conseguire il d.l. 90, di cui si dirà nel prosieguo).
Ebbene in questo caso la Regione, al di la dei profili che saranno anche questi illustrati infra con riguardo all’attuazione dell’art. 118 Cost., dovrebbe limitarsi a constatare l’avvenuta deflagrazione del sistema camerale regionale.
Conclusione, questa, che appare assai poco plausibile nel vigente quadro costituzionale delle competenze che, peraltro,sul punto non subisce radicali stravolgimenti neanche con il disegno di legge costituzionale all’Esame del Senato di riforma della Parte II, Titolo V della Cost. (A.S. 1429-A, anche l’atecnico riferimento all’ordinamento “degli enti di area vasta”, originariamente contenuto nell’ultima parte dell’art. 117, secondo comma, lett. p) della proposta governativa tra le competenze esclusive dello Stato, e’ stato adesso sostituito, eliminando così ogni pur teorica incertezza sulla possibile ricomprensione delle Camere di commercio, con l’espressione ‘forme organizzative dei comuni’).

SULLE NORME DEL DECRETO LEGGE
L’art. 28 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90 – il cui d.d.l. di conversione e’ già stato approvato, con modifiche ed integrazioni, alla. Camera dei deputati (A.C. n. 2486) ed adesso e’ in discussione al Senato (A.S. n. 1582) – rubricato”riduzione del diritto annuale delle camere di commercio e determinazione del criterio di calcolo delle tariffe e dei diritti di segreteria”, come noto prevede, nelle more del riordino del sistema camerale, che”l’importo del diritto annuale di cui all’articolo 18 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, e successive modificazioni, come determinato per l’anno 2014, è ridotto, per l’anno 2015, del 35 per cento, per l’anno 2016, del 40 per cento e, a decorrere dall’anno 2017, del 50 per cento”
Si tratta di un’attenuazione dell’originaria riduzione contemplata dal decreto nella versione varata dal Governo, che andrà così a regime dal 2017 .
Mentre, anche in questo caso innovando rispetto all’originaria versione del decreto, nel d.d.l. di conversione la Camera dei Deputati ha introdotto la previsione che le tariffe e i diritti di cui all’articolo 18, comma 1, lettere b), d) ed e), della legge 29 dicembre 1993, n. 580, e successive modificazioni, siano fissati sulla base di costi standard definiti dal Ministero dello sviluppo economico, sentite la Società per gli studi di settore (SOSE) Spa e l’Unioncamere, secondo criteri di efficienza da conseguire “anche attraverso l’accorpamento degli enti e degli organismi del sistema camerale e lo svolgimento delle funzioni in forma associata”.
Appare in primo luogo evidente che il Governo ha inteso, invertendo chiaramente un iter logico nel quale gli effetti finanziari seguono i nuovi assetti ordinamentali, pur nel rispetto delle previsioni che questi debbono accompagnare, far precedere il ‘riordino’ del sistema camerale da una consistente riduzione delle fonti di finanziamento dello stesso e questo senza modificarne le funzioni o ridurne gli oneri per le risorse umane o strumentali o regolare, anche transitoriamente le sorti dei rapporti pendenti.
Tale scelta appare ancor più paradossale in quanto incide, pur lasciando immutata l’autonomia funzionale attribuita agli enti camerali, proprio sui fondamenti dell’autonomia stessa delle Camere che, almeno formalmente, non risulta scalfita, salvo ad essere sostanzialmente destrutturata.
Se, come sosteneva Costantino Mortati, l’autonomia finanziaria degli enti costituisce la ‘pietra angolare’ di ogni sistema di decentramento istituzionale (Istituzioni di diritto pubblico, II, Padova, 1976, IX ed., 906), attenuare, o meglio drasticamente ridurre, l’autonomia finanziaria, peraltro prescindendo da ogni valutazione preventiva sulle funzioni svolte, le dotazioni di risorse umane e strumentali, i rapporti pendenti, postula la negazione di tale autonomia.
Giova infatti ricordare che l’evoluzione legislativa dell’ordinamento camerale, invero non sempre lineare, ha condotto al progressivo rafforzamento di tale autonomia nel solco del principio sussidiarietà orizzontale delineato dall’art. 118, IV comma, della Costituzione, che pur non menzionando le autonomie funzionali, costituisce il fondamento del pluralismo associato partecipativo. E tale presidio che non può ritenersi oggi vulnerato, in termini impliciti, dalla surrettizia scelta di drastica (e finanziariamente poco plausibile in quanto avulsa da adeguate valutazioni ex ante) riduzione delle forme di finanziamento delle. Camere di commercio “a prescindere” da ogni valutazione sugli equilibri di bilancio di detti enti.
Inquadramento che, giova ricordarlo, ha ricevuto il riconoscimento anche della giurisprudenza costituzionale (sent. 8 novembre 2000, n. 477) che proprio nel riconoscere l’autonomia propria delle Camere di commercio, ne ha chiarito la natura di “ente pubblico locale” dotato di autonomia funzionale, di natura non strumentale, non riconducibile né all’amministrazione statale, né a quella territoriale, in guisa da sancire l’ingresso delle Camere di commercio, a pieno titolo, “nel sistema dei poteri locali, secondo lo schema dell’art. 118 della Costituzione”.
Appare rilevante richiamare, al fine di chiarire gli obiettivi sottesi alla scarna disposizione in esame quanto precisato dalla nota di commento del dossier elaborato dall’Ufficio Studi del Senato: “il disegno del governo stabilisce l’eliminazione del diritto annuale a carico delle imprese, la riduzione dei compiti e delle funzioni, il trasferimento al Ministero dello sviluppo economico delle competenze relative al registro delle imprese (con conseguente individuazione delle modalità di gestione e garantendo la continuità operativa del sistema informativo nazionale vigente, e avvalimento delle amministrazioni competenti a livello territoriale con adeguate soluzioni di sostenibilità finanziaria del sistema complessivo), il riordino della disciplina dei compensi dei relativi organi (prevedendo la gratuità degli incarichi diversi da quelli nei collegi dei revisori dei conti, nonché la definizione di limiti al trattamento economico dei vertici amministrativi delle medesime camere e delle aziende speciali) ed una disciplina transitoria che assicuri la sostenibilità finanziaria e il mantenimento dei livelli occupazionali”.
Quanto riportato se evidenzia quale sia l’effettiva portata dell’iniziativa governativa, ben oltre le scarne disposizioni della disposizione in commento, rende chiara, tuttavia, la carenza di un puntuale piano finanziario, sicché la sostenibilità finanziaria e’ affidata, non ad una pur sintetica valutazione preventiva, ma alla “disciplina transitoria” senza ulteriori parametri, indicatori, analisi.
Per altro verso la scheda tecnica elaborata dal competente ufficio del Senato precisa che, per un verso, la Relazione tecnica al d.l. determina un risparmio per il sistema delle imprese iscritte o annotate nel Registro delle imprese”quantificabile in circa 280 mln di euro per il 2015, 320 mln per il 2016 e 400 mln a decorrere dal 2017, sulla base degli ultimi dati disponibili (2012), che lo cifrano pari a circa 800 mln di euro” La stessa relazione tecnica, tuttavia, conclude “affermando che la norma non comporta effetti negativi sulla finanza pubblica, atteso che le (corrispondenti) minori entrate del sistema camerale possono essere compensate con le riduzioni delle correlate spese dirette alle iniziative e agli interventi da realizzare a valere sulle predette entrate”.
Sul punto la citata Relazione tecnica del Servizio Bilancio del Senato osserva invece che “nella Nota di risposta durante l’esame presso la Camera dei deputati il Governo ha precisato – sempre con riferimento al testo originario della norma – che il fabbisogno per gli oneri inderogabili di personale degli enti camerali è pari a circa 400 milioni di euro, mentre il gettito complessivo del diritto annuale ammonta appunto a circa 800 milioni di euro, ai quali vanno aggiunte le altre entrate previste dall’articolo 18 della legge n. 580 del 1993, che continuano comunque ad affluire alle camere di commercio, per un ammontare di circa 470 milioni di euro aggiuntivi. La Nota afferma, inoltre, che la norma prevede una decorrenza dal 2015: ne deriva che l’attuazione degli interventi già programmati, ed eventualmente impegnati per il 2014, non subiscono pregiudizio, mentre dal 2015 gli interventi verranno programmati nei limiti delle entrate disponibili. Peraltro, in sede di determinazione del fabbisogno del sistema camerale si terrà conto delle nuove disposizioni, prevedendo un eventuale adeguamento del fondo perequativo per far fronte agli eventuali squilibri registrati da talune camere a seguito della riduzione del diritto annuale”.
Sicché la stessa relazione del Senato evidenzia il quadro di incertezza finanziaria che accompagna un provvedimento caratterizzato da eccessiva urgenza rispetto alla complessiva portata delle questioni trattate e che per altre fattispecie (agevole il riferimento al PRA in atto gestito dall’ACI, per il quale comunque era previsto il passaggio del personale relativo all’Amministrazione dello Stato) hanno indotto il Governo, pur di fronte a stentorei annunci, ad effettuare i necessari approfondimenti prima di assumere decisioni in merito.
E ciò nonostante il Presidente dell’Unioncamere nell’anzi cennata audizione abbia chiaramente evidenziato che a seguito del taglio a regime del 50% del diritto annuale, corrispondente ad oltre 400 milioni di euro, sarebbero”48 le Camere di commercio non in grado di sostenere completamente i costi del personale e di funzionamento (all’interno dei quali sono compresi anche i costi delle attività di regolazione del mercato e di una serie di servizi obbligatori, oltre che alcune attività trasversali di sistema, dal fondo di perequazione alle organizzazioni regionali e nazionale), con una situazione particolarmente critica in Sicilia. Complessivamente il disavanzo per queste 48 Camere di commercio ammonta a 49.647.347 €. Le restanti 57 Camere, pur potendo sostenersi e dunque svolgere le attività amministrative obbligatorie, subirebbero una forte contrazione delle attività promozionali e potrebbero disporre complessivamente a livello nazionale solo di 145 milioni di euro a fronte dei circa 500 milioni di euro di attività promozionale riversata sui territori nel 2013″.
Del tutto singolare appare infine l’inserimento della clausola di salvaguardia che si rinviene al terzo comma della norma in esame (“dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”).
Non si comprende, infatti, come una scelta che trasferisce un servizio come il registro delle imprese dalle Camere di commercio allo Stato senza predeterminarne i costi dell’operazione e nel contempo dimezza sostanzialmente le risorse disponibili, possa garantire (fermo restando che, sopratutto nel Mezzogiorno, la gran parte degli attuali costi delle Camere di commercio e’ generata da stipendi e pensioni) l’equilibrio finanziario complessivo.
Palermo-Roma, 4 agosto 2014

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