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Insularità e perequazione infrastrutturale nell’ordinamento europeo

di Gaetano Armao

RIFORME E ISTITUZIONI

Si esplorano le possibilità di rilancio dell’autonomia speciale della Regione siciliana nel contesto di una crescita di rilievo dell’insularità nel diritto internazionale ed europeo, ma anche della contraddittoria evoluzione del federalismo fiscale in Italia

Premessa

Il tema dell’insularità appartiene alla tradizione giuridica del nostro Paese e si connette, per imprescindibili motivi di ordine geografico, con l’irrisolta questione meridionale e le sue molteplici e spesso contraddittorie sfaccettature. Come si avrà modo di osservare nel prosieguo di queste considerazioni, mentre la materia assume progressivamente rilievo nel diritto internazionale prima e nel diritto europeo dopo, ha perduto progressivamente specifico rilievo nel diritto pubblico domestico.
Se sul piano dei principi si può osservare che la tutela dell’insularità, pur perdendo rilievo costituzionale, riceve una tutela ancor più rilevante nel diritto primario europeo e nei trattati internazionali, la progressiva perdita d’interesse dell’ordinamento interno evidenzia, più in generale, l’obliterazione delle politiche di coesione territoriale e della questione meridionale, che ha aggravato i suoi contorni.

Le problematiche dell’insularità si connettono, in tal guisa, con i temi della coesione economica, sociale e territoriale e le questioni relative alla perequazione infrastrutturale così come declinata dalla l. n. 42 del 2009 e s.m.i. ed alla disciplina attuativa, ancora invero in fieri. A tale tematica è poi dedicata la terza ed ultima parte di questo lavoro con alcuni specifici riferimenti all’ordinamento della Regione siciliana.

1. L’insularità nell’ordinamento costituzionale italiano: cenni.

In Italia, già la Costituzione del 1948, contemplava all’art. 119 c.3 (“per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali”), un chiaro e puntuale riferimento all’insularità ed al Mezzogiorno, considerate realtà svantaggiate dal punto di vista geografico, economico e sociale da valorizzare ed alle quali destinare misure ed incentivi straordinari e che fu oggetto di un dibattito in Assemblea costituente.
Nella prospettiva di riforma della seconda parte della Costituzione si registra tuttavia la scomparsa dell’insularità, eliminando all’obiettivo della sua valorizzazione quella preminenza che esso aveva nell’originaria stesura dell’art. 119, terzo comma, della Carta fondamentale, in guisa da considerare in termini generalizzati le esigenze di riequilibrio.
Il legislatore costituzionale del 2001 ha così espunto dall’art. 119 Cost. ogni riferimento a tali aree geografiche, senza peraltro ridisciplinare, alla luce dei mutamenti sociali e politici avvenuti nel corso degli anni, la particolare condizione giuridica delle zone insulari, che conservano uno spiccato’orgoglio identitario’ che risiede nella consapevolezza di costituire un popolo, con un proprio statuto ontologico e una propria connotazione storico-culturale.
Ed infatti quella norma fu sostituita dall’art. 119 Cost. 5 comma: “Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”.
Prescindendo, quindi, dal considerare che l’insularità ingenera una condizione ulteriore di disequilibrio, che è dovuta sia alla collocazione nello spazio (l’essere circondate interamente dalle acque, infatti, incide sugli scambi, sul commercio e sul trasporto), sia al fatto che si trova in una posizione differente rispetto al restante contesto continentale. Mentre il profondo senso di appartenenza a un dato contesto insulare alimenta la specialità dei territori insulari, che si manifesta in un’identità con tradizioni culturali e storia del tutto peculiari.

2. L’insularità nel diritto internazionale ed europeo

Nel diritto internazionale l’insularità ha assunto un rilievo sempre più pregnante sin dal 1982. Le norme che vengono in rilievo sono relative alle isole genericamente intese, e nell’ambito di queste ultime, agli stati insulari. Vanno richiamate le norme contenute nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10 dicembre 1982 ed in particolare le disposizioni della Parte IV (art. 46- 54) e quelle della parte VIII (art. 121) che delineano “il regime giuridico delle isole” .
Nell’ordinamento europeo il riferimento specifico alle Regioni insulari è successivo. Il tema dell’insularità, tuttavia, non è affatto marginale, rispetto alle grandi questioni che investono la vita e le prospettive dell’Unione, quali l’ampliamento, il rafforzamento, l’elaborazione di una Costituzione europea. Al contrario, lo status di queste regioni nel diritto comunitario, nonché le politiche che le norme dei Trattati in tema di insularità, impongono di affrontare questioni di carattere generale, alle quali gli Stati non possono restare indifferenti.
Sin dal Trattato istitutivo della CEE del 1957 a livello comunitario è stata riconosciuta rilevanza alla specificità dei territori insulari ma unicamente con riguardo alle regioni ultraperiferiche. Nel 1997, con il Trattato di Amsterdam, viene in rilievo la specificità con riferimento alle regioni insulari dell’Unione.
Tale mutamento si concreta, in primo luogo, in una nuova formulazione dell’art 158 del Trattato CE e nel successivo art. 159 che precisa che l’elaborazione e l’attuazione delle politiche e azioni comunitarie, nonché l’attuazione del mercato interno devono tener conto degli obiettivi dell’art. 158 e concorrere alla loro realizzazione.
L’Eurostat, l’Ufficio Centrale statistico Europeo, definisce “Isole” quei territori facenti parte di stati membri completamente circondati dal mare, ma che non includono una capitale di stato e che non sono legati da ponti alla terra ferma.
Lo sviluppo economico e sociale di tali regioni è evidentemente ostacolato da problemi geografici di natura oggettiva, anche se tale sviluppo varia anche in maniera sostanziale da isola ad isola. Tutte le isole dell’Unione Europea, a prescindere dal loro sviluppo economico, dettato il più delle volte da condizionamenti esterni o da fattori fragili o stagionali, accusano grosse limitazioni sia in termini di sviluppo endogeno che di comunicazione con il continente nonché una fragilità di base della loro struttura economica che è, il più delle volte, monosettoriale.
Lo sviluppo dell’insieme della Comunità e la riduzione dei divari tra le regioni rappresentano il fulcro delle politiche di coesione dell’Unione. Gli strumenti finanziari utilizzati per raggiungere tali obiettivi sono principalmente quattro. Il principale di essi è costituito dal Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr), istituito nel 1975. Il Fesr viene fin dall’inizio utilizzato soprattutto per finanziare progetti di investimento infrastrutturali nelle regioni in ritardo di sviluppo della Comunità.
Con l’Atto Unico del 1986, con il quale viene introdotto formalmente il principio della coesione economica e sociale e che ne pone le basi, si arriva in un biennio ad una prima riforma dei Fondi strutturali. La riforma promuove innanzitutto il coordinamento degli interventi tra il Fesr, il Feoga (Fondo europeo di orientamento e garanzia) – Sezione orientamento, creato nel 1962, il Fondo sociale europeo (Fse, creato nel 1958) e la loro focalizzazione a favore delle regioni e dei gruppi sociali più svantaggiati.
La revisione del Trattato nel 1992 (Maastricht) nella prospettiva dell’Unione economica e monetaria riconosce il principio di coesione economica e sociale come uno degli obiettivi prioritari dell’Unione ed istituisce il Fondo di coesione per garantire la convergenza dei quattro stati membri meno sviluppati della Comunità (Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna). Ai tre Fondi già menzionati, si aggiunge infine lo Sfop (Strumento finanziario di orientamento della pesca) che viene creato nel 1993 per sostenere la riconversione e la ristrutturazione del settore.

L’Agenda 2000, adottata a Berlino il 25 marzo 1999, ha posto le basi per la corrente fase della programmazione dei Fondi strutturali, che prevede un totale di 213 miliardi di euro per il finanziamento delle azioni comunitarie nel periodo 2000-2006. Secondo l’articolo 1 del regolamento del Consiglio n. 1260 del 21.6.1999, l’azione che la Comunità svolge con i Fondi strutturali mira al conseguimento dei 3 obiettivi prioritari:
– promuovere lo sviluppo e l’adeguamento strutturale delle regioni che presentano ritardi nello sviluppo (Obiettivo 1);

– favorire la riconversione economica e sociale delle zone con difficoltà strutturali (Obiettivo 2)

– favorire l’adeguamento e l’ammodernamento delle politiche e dei sistemi di istruzione, formazione e occupazione (Obiettivo 3).

Dopo trent’anni di politica regionale di coesione dell’UE – e si ritiene, senza particolari sentimenti antieuropei, ma soltanto sulla scorta della mera analisi dei risultati su base continentale – la maggior parte delle isole europee ha tuttora un PIL pro capite inferiore al 75% della media comunitaria, ma alla luce del funzionamento dei prossimi Fondi Strutturali 2007-2013 tali regioni manifestano una certa preoccupazione. Con l’allargamento ad Est, infatti, la media europea del PIL procapite si è abbassata enormemente e non consente più pertanto a diverse regioni insulari di rientrare nell’ottica degli aiuti comunitari (ex obiettivi 1 e 2).
Tenuto conto dell’aperta volontà del legislatore europeo di sostenere le regioni meno favorite, in particolare quelle insulari (art. 154 e 158 del Trattato di Amsterdam), e considerando tutti i problemi di carattere permanente per tali aree, (la precarietà dei sistemi di comunicazione, l’elevato costo dell’energia, lo smaltimento dei rifiuti, la destagionalizzazione, l’esatta gestione delle coste sui fenomeni dell’erosione e della desertificazione, la promozione di nuove fonti di ricchezza, tra cui il turismo, la metanizzazione del territorio, la valorizzazione di siti turistici, il recupero di porti mal sfruttati, la creazione di grossi assi di comunicazione interni, etc.) dovrebbe auspicarsi che il criterio di ripartizione di fondi strutturali sia finalmente legato a fattori territoriali oltreché economici, dedicando la dovuta attenzione ai territori insulari.

2.1 Le iniziative del Parlamento europeo volte a far emergere il tema dell’insularità. La corretta interpretazione dell’art. 158 del Trattato di Amsterdam.

Come e’ noto l’art. 158 del trattato di Amsterdam presenta versioni interpretative diverse nelle varie lingue. La logica porta a credere che la versione a favore dei territori insulari sia la più appropriata considerato che un’isola fa comunque parte di una regione, o lo è addirittura, e non ci sarebbe stato motivo di inserire nel Trattato la parola “insulari” se si fossero volute semplicemente agevolare tutte le regioni meno favorite.
Probabilmente si tratta di un errore nella traduzione, anche se, forse non a caso, il sito del Consiglio su Internet durante la preparazione del Trattato di Amsterdam (CIG) pubblicava l’art. 158 nella versione francese in termini favorevoli per le isole. L’art. 154 comma 2, inoltre, e l’annessa dichiarazione 30 sempre del Trattato di Amsterdam, fanno invece chiaro riferimento alla situazione sfavorita delle regioni insulari ed in caso di interpretazione contraria dell’art.158, entrerebbero quasi in conflitto con quest’ultimo.
Occorre quindi fare riferimento alla dichiarazione n. 30 allegata al Trattato di Amsterdam sull’insularità e, soprattutto, alle stesse conclusioni della Presidenza a Nizza: “Il Consiglio europeo, sulla base della dichiarazione n. 30 allegata al trattato di Amsterdam, ribadisce la necessità di azioni specifiche a favore delle regioni insulari conformemente all’articolo 158 del Trattato istitutivo della Comunità europea, a motivo dei loro svantaggi strutturali che ne ostacolano lo sviluppo economico e sociale nei limiti delle disponibilità di bilancio”, per rispondere affermativamente alla prima domanda: il principio dell’insularità quale fattore che determina ritardi nello sviluppo è recepito e previsto nelle fonti comunitarie primarie.
Se ben si osserva, le innovazioni introdotte con l’art. 158 e con la Dichiarazione sulle regioni insulari costituiscono una corretta applicazione alle regioni insulari del fondamentale principio della coesione economica e sociale, applicazione del tutto in linea con gli orientamenti della Corte di giustizia comunitaria.

Appare evidente, quindi, come anche in questa seconda ipotesi ci si troverebbe in presenza di una discriminazione arbitraria, contraria ai principi dell’ordinamento comunitario poiché l’espresso riconoscimento della specificità insulare nell’art. 158 del Trattato istitutivo della Comunità europea va interpretato nel senso che il principio di insularità altro non è che un corollario di quello di coesione.
Quando le regioni insulari chiedono che la politica di coesione si concretizzi nei loro confronti, anche in una serie di deroghe rispetto a regole comunitarie generalmente applicabili, non chiedono un trattamento privilegiate, ma deroghe fondate sul principio di eguaglianza sostanziale.

2.2. L’evoluzione della disciplina dell’insularità nei trattati europei

In occasione della revisione del Trattato di Maastricht la Grecia, in accordo con la Spagna e quindi con altri Paesi, tra i quali l’Italia, si collocano in prima linea per l’aggiunta nell’art. 130 A del trattato (nuovo 158) di un riferimento specifico ai problemi delle regioni insulari. Tale riferimento alle regioni insulari nel primo articolo del Capitolo del Trattato dedicato alla politica di coesione sembra essere di estrema importanza in quanto evidenzia, accanto alle zone rurali (e quelle ultra periferiche), l’interesse dell’UE per altre zone caratterizzate da una specificità territoriale.
Sulla corretta interpretazione dell’art. 158 si esprime in largo favore delle isole il parere del Servizio Giuridico del Parlamento Europeo del 27.7.1998 (SJ-218/98)24. Le conclusioni di tale documentano fondano le basi dell’esatta interpretazione sulla Dichiarazione n. 30 e soprattutto sulla maggior logicità di un’interpretazione a favore delle isole. Non c’è motivo, si sostiene in tale documento, di inserire una nuova categoria “isole” nell’articolo in quanto queste comunque fanno parte di una regione se non per ammettere il loro oggettivo ed indiscutibile status di aree meno favorite.
In occasione del discorso di apertura della presidenza francese dell’UE, il 4 luglio 2000, il Presidente Chirac dichiara che “la crescita e la solidarietà devono essere di beneficio per tutte le regioni dell’Unione, e in particolare per le sue regioni insulari che bisogna aiutare a sormontare i loro handicap”.
Il successivo 12 luglio 2000 il Comitato Economico e Sociale dell’Unione europea adotta un rapporto di iniziativa sugli orientamenti per azioni integrate a favore delle regioni insulari dell’UE, con riferimento all’articolo 158 del Trattato di Amsterdam ove si chiede, tra le altre cose, alla Commissione europea di preparare un Libro bianco contenente un piano di azione articolato su un calendario di misure integrate per le regioni insulari, coordinate da una cellula interservizi della Commissione europea.

Durante la sessione di Ottobre 2000 il Parlamento europeo presenta quindi una nuova risoluzione sull’interpretazione dell’art. 158. Il Commissario per le politiche regionali Barnier annuncia che la Commissione europea presenterà prossimamente uno studio sulla situazione socio- economica di tutte le regioni insulari dell’UE.
Dopo la Convenzione presieduta da Giscard d’ Estaing il Consiglio europeo di Bruxelles è stato invitato dalla presidenza italiana a votare il Trattato Costituzionale. L’art 158 diviene così il 116 che cambia versione varie volte prima di approdare alla versione definitiva, mentre la parte sugli “aiuti di stato” inaspettatamente prevede un articolo, il 56, a favore delle isole. Ed ancora una volta nel corso delle negoziazioni emergono dei cambiamenti.
Ma la Presidenza italiana non è riuscita a raggiungere l’accordo per l’approvazione del Trattato Costituzionale, quindi i sopracitati articoli non entrarono in vigore e solo dopo diversi mesi di incertezze (legate anche alle elezioni in Spagna e alla guerra in Iraq) sotto presidenza irlandese i 25 stati membri raggiungono un accordo. Il Trattato è sottoscritto a Bruxelles nel luglio 2004 dai Capi di stato e di Governo, e votato dal Parlamento europeo a gennaio 2005, in attesa di diventare giuridicamente efficace solo dopo l’approvazione delle Camere nazionali o di eventuali referendum popolari.
Con il fallimento del Trattato Costituzionale, la tematica si ripropone immutata nell’articolato del Trattato di Lisbona (Articolo 174). Il nuovo Titolo XVIII verte sulla Coesione economica sociale “e territoriale”. L’aggiunta a riferimento “territoriale” come principio d’intervento dell’Unione rappresenta un passo in avanti per quanti sostengono che l’Unione debba intervenire per riequilibrare eventuali squilibri. La “coesione territoriale” può essere interpretata come un principio per il quale ogni territorio ha diritto ad un trattamento particolare, secondo le proprie specificità. L’unione dovrebbe pertanto intervenire, non solo laddove esistono squilibri economici e sociali, ma anche territoriali.
L’articolato del Trattato di Lisbona quindi può essere considerato un primo risultato per le isole perché chiarisce finalmente il “dilemma” dell’art 158, anche se in tema di aiuti di stato si poteva sperare in qualcosa di più. Non dimentichiamo però che tale aggiunta era nata anche un po’ casualmente e non era mai stata contemplata prima della Convenzione da nessun documento ufficiale.
Ad oggi, da un punto di vista giuridico/politico, la chiarezza sull’articolo stesso, l’aggiunta del principio della coesione territoriale e l’appoggio di altre regioni “svantaggiate” segnano un passo in avanti che potrebbe aiutare in fase di ulteriori evoluzioni dell’ordinamento europeo.
Inoltre, dopo il 2020, ci potrebbe essere un’evoluzione della politica regionale verso “politiche macro-regionali” basate sulla coesione territoriale (regione Danubio, regione mare del nord, regioni alpine, adriatico-ioniche ecc) il che potrebbe aiutare a far nascere macroregioni insulari anche attraverso nuovi strumenti come il GECT, gruppo europeo di cooperazione territoriale, volti a far sviluppare la cooperazione interregionale ed ad andare di fatto oltre il sistema tutt’ora vigente per la ripartizione dei fondi, che è basato unicamente sul prodotto interno lordo (sistema per il quale dopo l’ingresso dei nuovi paesi dell’Est Europa ha penalizzato molte della regioni meridionali europee).

3. La sentenza Azzorre del 2006 e la fiscalità di sviluppo nella giurisprudenza della Corte di giustizia.

La Corte di giustizia ha ritenuto per lungo tempo di dover affrontare la questione delle asimmetrie fiscali all’interno di un singolo Stato non già secondo i principi elaborati in materia fiscale, bensì applicando quelli ben noti in materia di aiuti di Stato, giovandosi di una definizione quanto mai lata di aiuto.
Solo di recente la stessa Corte, nella sentenza Azzorre del 6 settembre 2006, ha distinto tra regioni aventi autonomia legislativa in materia di imposta e quelle prive di tale potere, riconoscendo alle prime la possibilità di introdurre un regime di tributi propri differenziato da quello di altre entità infrastatali.
La Corte, dovendo valutare la legittimità del regime di fiscalità territoriale agevolata di cui godeva la Regione autonoma delle Azzorre, pur respingendo il ricorso proposto dalla Repubblica portoghese avverso una decisione negativa della Commissione, ha proceduto ad una sostanziale rivisitazione del criterio della “selettività territoriale” sino ad allora adottato dalla Commissione stessa, operando una serie di distinzioni che aprono la strada alla possibilità che misure di vantaggio possano essere adottate da enti sub statali. Per giungere a tale risultato la Corte ha, anzitutto, sconfessato il consolidato orientamento secondo cui ogni misura non applicabile su tutto il territorio sarebbe in sé selettiva, indipendentemente dalla autonomia amministrativa e finanziaria dell’ente che la adotta, e come tale idonea a configurare un aiuto illegittimo, salva autorizzazione della Commissione.
Quello che viene richiesto non è tanto una caratteristica tipica di questo o quell’ente quanto un requisito relativo all’intero impianto dei rapporti centro-periferia dello Stato.
In questo senso il Supremo giudice europeo ha ritenuto che “non si può escludere che un’entità infrastatale sia dotata di uno statuto di fatto e di diritto che la renda sufficientemente autonoma rispetto al governo centrale di uno Stato membro affinché, grazie alle misure adottate, sia la detta entità, e non il governo centrale, a rivestire un ruolo fondamentale nella definizione dell’ambito politico ed economico in cui operano le imprese. In tali circostanze, il territorio nel quale esercita la sua competenza l’entità infrastatale che ha adottato il provvedimento, e non il territorio nazionale nella sua totalità, rappresenta il contesto rilevante per accertare se un provvedimento adottato favorisca determinate imprese rispetto ad altre”.
Perché dunque una misura, che pur si applica ad una zona geografica limitata del territorio di uno Stato, possa essere ritenuta di carattere “generale” e quindi non selettiva, occorre verificare che “il provvedimento sia stato adottato nell’esercizio di poteri sufficientemente autonomi rispetto al governo centrale”.
Quando la possibilità di operare scelte autonome rispetto ad una imposta erariale sia riservata soltanto ad alcuni enti territoriali e non a tutti, perché il regime di cui si tratta sia compatibile con il divieto di aiuti di Stato devono ricorrere tre condizioni (c.d. test di autonomia): che la decisione sia stata adottata da un’autorità regionale o territoriale dotata, sul piano costituzionale, di uno statuto politico e amministrativo distinto da quello del governo centrale; che la decisione sia stata presa senza la possibilità di un intervento diretto da parte del governo centrale in merito al suo contenuto; e, infine, che l’onere che l’ente subisce dall’adozione della misura non sia compensato da sovvenzioni o contributi provenienti da altre regioni o dal governo centrale.

Prima della sentenza nella causa Azzorre, la posizione della Corte in merito alla ricaduta del divieto di aiuti di Stato sull’autonomia impositiva riconosciuta in vari Stati membri ai livelli di governo regionale risultava, dunque, di sostanziale chiusura alle istanze di federalismo fiscale.
Ciò conseguiva, da un lato, da una lettura delle condizioni prescritte per qualificare una misura come aiuto vietato ex art. 87 TCE tale da ricondurre sotto tale divieto anche le misure riferibili a scelte di autonomia locale e, dall’altro, da un atteggiamento di fondo di diffidenza verso i modelli di decentramento fiscale, visti quali mezzi con cui cercare di aggirare l’applicazione delle disposizioni in materia di aiuti semplicemente apportando modifiche alla ripartizione interna delle competenze in determinate materie.
Non a caso la Corte nella causa citata ha non solo negato rilevanza al principio costituzionale della solidarietà nazionale presente nella costituzione portoghese, ma, anzi, lo ha utilizzato quale prova del fatto che la riduzione del gettito conseguente alla riduzione d’aliquota adottata dalla autorità regionale fosse finanziata da un trasferimento a carico del bilancio statale, con conseguente illegittimità della misura territorialmente selettiva.
Se dunque, la Corte ha indubbiamente fatto chiarezza sul rapporto fra divieto d’aiuti di Stato e modelli di federalismo fiscale, l’autonomia dell’ente quale prefigurata dalla Corte presenta non poche problematicità sul piano concreto.

3.1. Federalismo fiscale ed ordinamento speciale della Regione siciliana.

Il cammino del federalismo fiscale in Italia è stato spinto da un dinamismo browniano (un movimento rapido e irregolare, in direzioni disparate). Dopo la legge n. 42 del 2009 si sono infatti succeduti decreti attutivi, contenziosi e pronunce della Corte costituzionale, iniziative legislative ed amministrative contraddittorie.
Mentre adesso si prospetta una riforma costituzionale per molti versi controversa, proprio a partire dal pesante ripensamento del regionalismo così come emerge dal testo della Costituzione vigente e dalla legislazione attuativa.

Sicché é difficile affermare a che punto esso effettivamente sia, anche a causa dell’irrompere di una crisi economica senza precedenti che ha fatto prevalere una spinta giustapposta verso l’accentramento delle decisioni finanziarie al fine di rispondere, con efficacia e tempestività, alle esigenze di risanamento finanziario.
Emblematica della contraddittoria situazione e di sostanziale stallo nella quale si trova il federalismo fiscale nell’ordinamento italiano é proprio la perequazione infrastrutturale.
Sia sul piano economico che su quello sociale é noto quanto ancora sia ampio il divario tra nord e sud del Paese, ma, sopratutto, quanto le politiche di coesione territoriale (anche di matrice comunitaria) dell’ultimo decennio non siano riuscite a far ripartire quel processo di crescita del Mezzogiorno che dovrebbe renderlo coeso alle Regioni del centro-nord e competitivo.
La doppia velocità che si é voluta imprimere all’attuazione del federalismo fiscale – maggiore per i provvedimenti che rafforzano la capacità fiscale delle Regioni del nord, minore per quelli, pur contemplati dalla citata riforma del 2009, che introducono importanti meccanismi di riequilibrio e di perequazione, sopratutto per le Regioni insulari – rischia di inverare un federalismo che non solo si distacca nell’applicazione dalla matrice che lo ha generato, e che diviene incompatibile con lo stesso art. 119 della Costituzione che intenderebbe invece applicare, ma privilegia le spinte più penalizzanti per la coesione economico-sociale del Paese.

Non può revocarsi in dubbio che il federalismo fiscale costituisca una riforma importante che deve misurarsi con le difficoltà di una divaricazione economica tra nord e sud che non ha eguali in Europa, e che, con qualche limitata eccezione, si è solo aggravata in 150 anni di Unità, con poteri e competenze differenziati tra le istituzioni territoriali coinvolte, con un sistema fiscale farraginoso, con un elevato tasso di evasione fiscale.

Lo Statuto siciliano è stato e rimane un riferimento sicuro di qualsiasi regionalismo preso sul serio.
Certo gli anni trascorsi e le riforme intervenute, l’irrompere della prospettiva dell’integrazione europea, imporrebbero alcuni interventi di revisione (purtroppo ancora attesi), ma il paradosso è che il processo di affermazione dell’idea del federalismo e del c.d. federalismo fiscale è cresciuto nel Paese intersecando l’onda lunga della progressiva dissoluzione dei principali punti di forza dell’autonomia siciliana.
Quale sarà l’effettivo assetto della Repubblica al termine del complesso percorso di riassetto delle competenze tra i diversi livelli istituzionali non può non essere pienamente previsto ed analizzato. Sarebbe un salto nel buio che l’Italia non può permettersi nel tempo della competizione globale, e men che meno può permettersi la Sicilia costretta in una pesante crisi congiunturale, aggravata da un debole contesto economico che mai ha raggiunto i livelli medi di crescita del Paese.
I principi fissati dall’art.119 della Costituzione esigono un impegno forte e rinnovato di tutti i livelli di governo della Repubblica e di quanti operano nel sistema economico e sociale; occorre, infatti, garantire le condizioni necessarie per una crescita equilibrata e solidale dell’intero Paese, assicurando ai cittadini, in particolare, le prestazioni necessarie al pieno e uniforme godimento dei diritti civili e sociali previsti dalla Costituzione.
Giova ricordare che lo Statuto di autonomia prevede un’elencazione dettagliata delle funzioni attribuite dallo Stato alla Regione, nella forma della competenza esclusiva con l’art. 14, e nella forma della competenza concorrente con l’art. 17, lasciando, con l’art. 20, la possibilità di delega di ulteriori funzioni. Nel contempo, prevede, agli artt. 36 e 37, le entrate con cui far fronte al loro esercizio, a tale fine prefigurando, rispetto anche alle entrate oggi previste per le altre Regioni, l’integrale attribuzione di ogni tributo erariale con esclusione delle imposte di fabbricazione (accise), nonché i monopoli, tabacchi e lotto.

Una siffatta previsione combinata di funzioni e di entrate regionali intendeva assicurare l’integrale copertura dei costi discendenti dall’esercizio delle funzioni attribuite alla Regione siciliana: ciò almeno secondo il disegno originario dei Padri dell’autonomia. Ma il progetto postulava che alla nascente Regione si attribuissero simultaneamente o, quanto meno, in tempi ragionevolmente brevi, da un lato le funzioni e dall’altro lato le entrate necessarie per il loro svolgimento.
Ora, non può negarsi che, nel trascorrere dei primi decenni di vita della Regione siciliana, il processo devolutivo delle funzioni fu molto più graduale rispetto a quello concernente le entrate. Infatti, solo nella prima metà degli anni settanta si fece luogo alla emanazione di numerose e incisive norme di attuazione dello Statuto, ai fini del trasferimento delle funzioni nelle materie dallo stesso attribuite formalmente alla competenza regionale. Da considerare, nella prospettiva interpretativa della giurisprudenza costituzionale, che la stessa subordinazione dell’effettivo trasferimento di funzioni alla emanazione di specifiche norme attuative dello Statuto, nelle determinate materie di volta in volta riguardate, costituiva una barriera al concreto svolgimento delle funzioni statutariamente attribuite.
Tale barriera, nel tempo, è stata consapevolmente manovrata, da parte statale, per circoscrivere l’effettivo trasferimento di funzioni nel quadro di un’ottica centralista, di guisa che, ancora oggi, rimangono non effettivamente trasferite funzioni come la pubblica istruzione, l’assistenza pubblica, l’Università, la sanità nella sua interezza.
Sul fronte delle entrate previste dallo Statuto autonomistico, invece, la Regione – sia nel regime provvisorio dei rapporti finanziari con lo Stato, la cui disciplina era fissata dal D. Lgs. 12 aprile 1948, n° 507, sia nel successivo regime determinato dalle norme di attuazione dello Statuto in materia finanziaria, approvate con D.P.R. 1074 del 1965 – ha potuto fruire, salvo striscianti ostruzionismi spesso insorgenti nella stessa indicata ottica, delle entrate previste dagli artt. 36 e 37 dello Statuto.

Tanto fino alla entrata in vigore della riforma tributaria prevista dalla legge n.825 del 1971 che, mutando fondamentali principi fiscali (con la trasformazione, ad esempio, delle imposte reali in imposte personali) ha sconvolto il precedente sistema, determinando incertezze sulla corrispondenza dei soppressi tributi a quelli di nuova istituzione, e quindi sulla spettanza di questi ultimi. Se non addirittura sovvertendo lo stesso criterio discriminante della spettanza, in quanto veniva spostato il baricentro della riscossione tributaria, dal luogo in cui si trovavano i beni produttivi di reddito, al domicilio fiscale del contribuente, con le intuitive complicazioni che ne derivano quando trattasi di società con sede fuori dal territorio siciliano.
Ciò in quanto, mentre l’art.36, comma 1°, dello Statuto prevede che: “Al fabbisogno della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima”, l’art. 2 delle norme di attuazione stabilisce che, oltre ai tributi propri, afferiscono alla Regione “tutte le entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del suo territorio…”, con la conseguenza di determinare, rilevanti perdite di gettito per la Regione in tutte quelle fattispecie ove, nonostante il presupposto d’imposta si realizzi in ambito regionale, l’ammontare del tributo venga versato da soggetti passivi o sostituti aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio della Regione stessa.
Si é in tal guisa determinato il sostanziale svuotamento applicativo dell’art. 37 dello Statuto con il conseguente venir meno dei relativi proventi, legati al principio della riscossione presso gli stabilimenti siciliani, dei tributi diretti sul reddito mobiliare di rilevanti società operanti in campo nazionale, e, quindi, con domicilio fiscale fuori dal territorio regionale, presso il quale ormai veniva dichiarato, accertato e riscosso anche il reddito proveniente dagli stabilimenti allocati in Sicilia.
In altre parole, come osservato, la riforma del 1971 ha spostato l’imposizione sul reddito dalle imposte reali a quelle personali, accorpando (nella base imponibile di queste ultime) redditi prima soggetti a distinti tributi e rafforzando l’incidenza e ampliando la sfera di applicazione delle ritenute alla fonte, nonché in larga misura sostituendo le autotassazioni e i versamenti diretti alle precedenti forme di riscossione mediante ruolo, mutando in termini sostanziali il quadro di riferimento così come delineato al momento dell’entrata in vigore delle norme di attuazione del 1965.
Ciò ha determinato consistenti erosioni nell’area dei gettiti tributari riscossi in precedenza al livello regionale, cagionando lo spostamento in favore del fisco statale della riscossione delle imposte relative a fattispecie maturate nel territorio regionale.
La ricordata legge delega n. 825 del 1971 per la riforma tributaria prevedeva all’art. 12, comma quarto, il coordinamento della finanza regionale con la stessa riforma, da attuarsi attraverso apposita ulteriore normativa di attuazione dello Statuto regionale in materia finanziaria; normativa che non ha mai visto la luce, nonostante il lavoro di commissioni e comitati all’uopo nominati.
L’effetto paralizzante dell’autonomia finanziaria e tributaria é stato, poi, ulteriormente aggravato dall’orientamento della prevalente giurisprudenza costituzionale che ha più volte ribadito la tesi sulla scorta della quale, rispetto al modello che emerge dall’art. 36 dello Statuto, ossia di “..un modello ispirato ad una netta separazione fra finanza statale e finanza regionale..” (ordinamenti finanziari distinti, ciascuno con un proprio ambito di esercizio di potestà riservata), nella concreta attuazione “..l’ordinamento finanziario della Regione Siciliana sia stato costruito, in base alle norme di attuazione dello statuto, e anche allontanandosi dal disegno originariamente sotteso alla formula testuale dell’art. 36 dello statuto, non già sull’esercizio di una potestà impositiva del tutto autonoma della Regione, in spazi lasciati liberi dalla legislazione tributaria dello Stato, bensì sull’attribuzione alla Regione del gettito della maggior parte dei tributi erariali, riscosso nel territorio regionale, e di una potestà legislativa anche in ordine alla disciplina degli stessi tributi erariali, fermo restando che, in assenza di diverse disposizioni legislative regionali, si applicano nella Regione le disposizioni delle leggi tributarie dello Stato (art. 6 del d.P.R. n. 1074 del 1965)” ( si vedano per tutte Corte cost. nn. 111 e 138 del 1999).
Più recentemente, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 116 del 2010, ha ritenuto di prospettare una lettura restrittiva delle competenze regionali in materia.
Si tratta di una pronuncia che evidenzia un revirement rispetto al precedente orientamento che aveva riconosciuto l’applicabilità generale del criterio di riparto basato sul luogo di realizzazione del presupposto di imposta (Corte cost. n. 306 del 2004 e n. 138 del 1999); la Corte ha, quindi, ritento di attenersi alla lettera della disposizione attuativa – come precisato divenuta del tutto obsoleta – senza considerare adeguatamente le altre previsioni del D.P.R. 1074/1965 che, al contrario, inducono a propendere per una valorizzazione dell’aspetto sostanziale del luogo in cui si manifesta la capacità contributiva.
Le statuizioni della richiama sentenza del Giudice delle leggi del 2010 sono l’effetto evidente di un’interpretazione prettamente letterale delle obsolete norme di attuazione regionali in materia finanziaria e tributaria, prescindendo dal considerare adeguatamente l’evoluzione normativa ed i principi stessi del federalismo fiscale, tanto da indurre la stessa Corte ad esprimere l’urgenza della revisione delle norme di attuazione dello Statuto in questione ed in qualche modo la “insoddisfazione” di dover operare su una base normativa contraddittoria e certamente non coerente con le previsioni statutarie .

3.2. La controversa attuazione del federalismo fiscale e le sue incompiute.

La legge 5 maggio 2009, n.42, concernente delega al Governo in materia di federalismo fiscale, reca – come noto – i principi ed i criteri direttivi per l’attuazione del novellato art. 119 della Costituzione, delineando un nuovo assetto dei rapporti economico-finanziari tra lo Stato e le Autonomie territoriali incentrato sul superamento del sistema di finanza derivata e della spesa storica e sull’attribuzione alle stesse di una più ampia autonomia di entrata e di spesa.
In questo contesto, uno degli obiettivi principali della riforma era il passaggio dal sistema dei trasferimenti, fondato sulla spesa storica, a quello dell’attribuzione di risorse basate sull’individuazione dei fabbisogni standard, necessari a garantire, sull’intero territorio nazionale, il finanziamento integrale dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali delle funzioni fondamentali degli Enti territoriali.
Al riguardo, nonostante il legislatore non abbia mancato di inserire una disposizione (comma 2 dell’art.1) che ha espressamente previsto come applicabili alle Regioni a Statuto speciale esclusivamente tre articoli (artt. 15, 22, e 27), la Regione siciliana ha ritenuto di impugnare la normativa di fronte al Giudice delle leggi, ritenendo che le diverse disposizioni in essa contenute avrebbero comunque determinato un coinvolgimento dell’autonomia finanziaria e tributaria regionale nel delineato percorso verso un assetto federalista.
La Regione siciliana, individuando i possibili profili di illegittimità costituzionale della legge delega, ha così proposto ricorso innanzi alla Corte costituzionale che con la sentenza n.201 del 2010, ha avuto modo di affermare che “ … la clausola di esclusione contenuta nel citato art. 1, comma 2, della legge n. 42 del 2009 stabilisce univocamente che gli unici principi delle delega sul federalismo fiscale applicabili alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome sono quelli contenuti negli artt. 15,22 e 27. Di conseguenza, non sono applicabili alla Regione Siciliana gli indicati principi e criteri di delega contenuti nelle disposizioni censurate…,” motivando “… su una sicura esegesi del dato normativo, priva di plausibili alternative”.

Il Giudice delle leggi, in altre parole, ha opportunamente evidenziato che la legge delega per il federalismo costituisce per le Regioni ad autonomia differenziata un vincolo con riguardo esclusivo ai soli tre articoli succitati ed è, pertanto, a questi che occorre far riferimento nella trattativa tra Stato e Regione, non potendosi ritenere cogenti le altre disposizioni della normativa, neanche per trarne un ancoraggio in termini di interpretazione analogica.

E, tuttavia, i contenuti dei primi schemi di decreti legislativi (in particolare, quello in materia di federalismo fiscale municipale e quello concernente l’autonomia di entrata per le Regioni a statuto ordinario e le province ubicate nel loro territorio, nonché la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard nel settore sanitario), fin dalla stesura iniziale, hanno evidenziato pesanti refluenze sull’impianto finanziario della Regione siciliana, ed imposto l’apertura di un serrato confronto tra Regione e Stato dapprima in conferenza Stato-Regioni e poi in sede giurisdizionale costituzionale.
Sotto altro profilo non è da sottovalutare che la potestà attribuita alle Regioni di prevedere una riduzione dell’aliquota Irap (fino ad azzerarla, con oneri a carico del bilancio delle stesse) é difficilmente attuabile per le Regioni del Mezzogiorno, in quanto le Autonomie territoriali con maggiore capacità fiscale, adottando le misure ivi previste, potranno creare condizioni di vantaggio sia per le imprese operanti nei loro territori, sia per nuovi insediamenti produttivi. Appare evidente il conseguente rischio che si inneschi un fenomeno di rincorsa verso territori fiscalmente più appetibili a discapito dello sviluppo dei territori del sud che, per le loro condizioni di deficit economico ed infrastrutturale, non potranno adottare tali misure, quanto meno nel breve termine, con conseguenze nefaste per l’economia delle Regioni stesse.
E ciò nonostante l’art. 27, terzo comma, lett. c) della stessa legge n. 42 del 2009, prospetti la possibilità di realizzare forme di “fiscalità di vantaggio” volte a promuovere la crescita economica ed a rimuovere gli squilibri economici e sociali esistenti proprio in quei territori.
Si é, così, manifestata la carenza nei decreti attuativi delle necessarie cautele per riservare al negoziato con le Regioni a statuto speciale l’applicazione delle legge delega, anzi in molti punti si sono inserite norme di formale estensione alle stesse, circostanza che ha condotto ad una massiccia reazione sul piano del contenzioso costituzionale (dei cui effetti si dirà oltre). Ma anche la carenza, ma questo e’ un rilievo che riguarda tutte le Regioni, delle necessarie specificazioni sui livelli essenziali di prestazione e di assistenza (lea e lep), le dotazioni quantitative e numeriche, la puntuale definizione della perequazione fiscale; deficienze queste che hanno contribuito a rendere asimmetrica e contraddittoria la prima applicazione del federalismo fiscale nel nostro ordinamento.
Se la perequazione fiscale é opportunamente individuata dalla legge delega in diretta correlazione col disegno costituzionale e ricondotta ai principi fondamentali di solidarietà, di unità nazionale e di capacità contributiva, sono carenti i necessari strumenti attuativi.

4. La perequazione infrastrutturale

Rilievo fondamentale assume, poi, il mancato superamento, a tutt’oggi, dello storico gap infrastrutturale – sul quale si veda la tabella che segue – esistente tra le Regioni, e riaffermato formalmente dal legislatore delegato nell’art. 22 della legge 42 del 2009 laddove impone al Governo statale la “ricognizione degli interventi infrastrutturali riguardanti le strutture sanitarie, assistenziali, scolastiche nonché la rete stradale, autostradale...”; ricognizione della quale, nonostante l’emanazione dei provvedimenti attuativi, non vi è traccia nel processo applicativo sinora definito.

Solo la rimozione di questi ostacoli – che limitano di fatto il pieno sviluppo delle Regioni meridionali – consentirà condizioni di eguaglianza sostanziale per l’attuazione concreta dei principi e criteri del federalismo fiscale ai sensi dell’art.119 della Costituzione.
La norma della legge delega succitata (una delle tre che si applica alle Regione a statuto speciale) è di fondamentale importanza ed al secondo comma impone l’avvio delle iniziative per il recupero del deficit infrastrutturale (precetto, come ricordato, ad oggi del tutto disatteso).
Sulla perequazione infrastrutturale, invero, si é detto e fatto troppo poco, nonostante la legge n. 42 del 2009 la individui quale asse portante, insieme a quella fiscale, dell’intero processo di riforma.
Volendo ricorrere ad una metafora si può dire che il legislatore ha affidato il cammino del federalismo a due gambe forti, la perequazione fiscale e la perequazione infrastrutturale. Ebbene, da quello che emerge dal dibattito sin qui sviluppatosi, la perequazione fiscale è appena accennata ed ancora incerta, mentre quella infrastrutturale e’ del tutto inesistente; appare quindi evidente che questo federalismo è più che claudicante e rischia di implodere dopo qualche passo.

Ancorché in uno stato di attuazione atrofizzata, ma comunque parzialmente applicato, affinché sia coerente con i principi sanciti dall’art.119 Cost. il federalismo fiscale deve recuperare elementi di equità e solidarietà, a partire dal pieno approntamento delle perequazioni, scongiurando l’assunzione dei connotati di un modello che penalizza il Mezzogiorno, determinando benefici certi al nord e disagi più che sicuri al sud, prospettiva questa che vede prevalere, infatti, il c.d. “federalismo dissociativo“. Non si può, quindi, ritenere compatibile, con il quadro così delineato ed i principi sanciti dalla l. n. 42 del 2009, che il federalismo fiscale – o meglio la parte che se ne attua – svolga effetti pregiudizievoli su alcune aree a sviluppo ritardato, lasciando immutato il divario infrastrutturale, appesantendo il disagio economico ed imponendo un incremento dell’imposizione fiscale che trasformi l’Isola in un’area di svantaggio fiscale, con le imposte più elevate ed i servizi meno efficienti.

4.1. L’attuazione della perequazione infrastrutturale.

Entrata in vigore la legge n. 42 del 2009 la Regione siciliana, sin dalla fine 2010 – lo si accennava innanzi – ha avviato un serrato confronto con lo Stato in ordine alle corrette forme di ricomprensione dell’autonomia differenziata nell’ambito dei decreti attuativi della normativa sul federalismo fiscale; ciò anche al fine di richiedere una piena applicazione dei profili perequativi che la riforma contempla a partire da quello infrastrutturale che rappresenta uno degli aspetti meno considerati sul piano applicativo, nonostante le molteplici refluenze di tipo territoriale ed economico.
Il tentativo iniziale del Governo nazionale è stato quello di ricondurre pienamente le Regioni a Statuto speciale nell’alveo della disciplina generale delle Regioni ordinarie, quindi in evidente contraddizione rispetto alle previsioni della stessa legge delega, che distingue puntualmente le Regioni a statuto ordinario da quelle a statuto speciale.
La Regione siciliana, in tale contesto, ha cercato di riportare la disciplina finanziaria e tributaria nel prisma dell’autonomia delineata dallo Statuto. Quindi, non una regolazione del tutto riconducibile al decreto attuativo della legge 42, ma una disciplina che passasse per una declinazione puntuale del federalismo fiscale alla stregua e alla luce dei principi statutari dell’autonomia finanziaria e tributaria.
La legge delega in argomento, peraltro, è stata opportunamente interpretata dalla Corte costituzionale su impugnativa proposta dalla stessa Regione siciliana, con la citata sentenza interpretativa di rigetto n.201 del 2010. La Corte ha chiaramente precisato che la sede opportuna per declinare il federalismo fiscale, per quanto concerne le regioni a statuto speciale, é il tavolo di confronto di cui all’art. 27 della stessa l. n. 42 del 2009 e la commissione paritetica. Conseguentemente, sono le norme di attuazione degli statuti in materia finanziaria che, con la loro “natura pattizia”, possano puntualmente disciplinare i canoni e i criteri del federalismo fiscale delle regioni a statuto speciale.

L’articolo 27, in tal senso, demarca margini di differenziazione della disciplina per le Regioni a statuto speciale da quella delle Regioni a statuto ordinario. Sono evidenti i riferimenti all’insularità ed ai suoi i costi, agli svantaggi strutturali permanenti, i riferimenti alla cosiddetta fiscalità di sviluppo; quindi ci sono elementi riconducibili all’articolo 119, V comma, Cost. che riescono a consentire la costruzione di un tessuto normativo che dovrà tenere conto delle forti divergenze tra i territori che esistono ed, in particolare, riguardano le due isole maggiori: la Sicilia e la Sardegna.
Su questo, sia la Regione siciliana che la Regione Sardegna hanno ritenuto di procedere autonomamente ad avviare studi da porre a base della individuazione dei fabbisogni sui quali fornire indici e parametri per la perequazione infrastrutturale, a partire dal tema dei costi dell’insularità.
In merito la Sicilia, di fronte all’inerzia dello Stato, ha istituito una Commissione tecnica appositamente nominata dal Governo regionale che ha già definito lo studio sui parametri per la determinazione dei fabbisogni connessi agli interventi di perequazione infrastrutturale, mentre si attendono ancora gli esiti dell’applicazione del decreto interministeriale attuativo dell’art.22 della legge n. 42 del 2009. Tale analisi ha l’obiettivo di fornire al tavolo delle trattative con lo Stato alcuni parametri necessari per la individuazione degli interventi infrastrutturali necessari al superamento del divario.
La perequazione infrastrutturale, tema sul quale la Regione siciliana ha più volte richiesto un chiaro intervento del Governo statale, è in qualche modo il grande assente dal dibattito attuativo del federalismo fiscale.
E ciò a partire dal decreto ministeriale attuativo della parte meramente ricognitiva propedeutica all’individuazione del divario che deve essere poi colmato attraverso la perequazione infrastrutturale, che è stato sottoscritto dai ministri competenti ed emanato, sebbene in schema, il 26 novembre 2010 ed è stato poi pubblicato nella Gazzetta ufficiale soltanto l’1 aprile 2011, ma dei suoi esiti non v’é traccia alcuna e tale inattuazione pone le basi per una grave alterazione nell’applicazione della riforma del 2009 che mal si concilia con i termini perentori che lo stesso decreto in questione assegna (in base all’art. 5 gli interventi diretti al recupero del deficit infrastrutturale sono individuati entro 90 giorni con decreto del Ministero dell’Economia).
La posizione della Regione siciliana in ordine alle linee di indirizzo alla cui stregua coordinare l’impianto statutario con i principi posti in tema di federalismo dalla citata legge delega, è stata manifestata in diverse sedi e occasioni di confronto con il Governo nazionale con la produzione di documenti, tutti volti ad avviare la trattativa che possa consentire alla Sicilia l’inveramento dell’autonomia finanziaria e tributaria sancita dallo Statuto e più volte richiamata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
Al riguardo, come ricordato, stessa legge delega preveda l’applicabilità alle Regioni a Statuto speciale delle disposizioni in essa contenute, limitatamente a tre articoli: l’articolo 15, che reca i principi che informano l’istituzione delle città metropolitane, l’articolo 22, che estende alle autonomie speciali la particolare procedura rivolta alla «perequazione infrastrutturale» e l’articolo 27 che disciplina l’introduzione della riforma tramite norme di attuazione degli statuti speciali. In particolare, l’art. 27 dispone l’adeguamento (anche su direttive da formularsi da parte di specifici “tavoli di confronto” tra Governo e ciascuna autonomia differenziata) alle specialità del procedimento di attuazione del federalismo fiscale in quegli ordinamenti ed elenca – con esclusione degli altri – i principi ed i criteri direttivi che potranno applicarsi.
Il quadro complessivo delle entrate della Regione, come definito dallo stesso art. 36, rimanda anche alle “entrate patrimoniali”, per le quali è quindi indispensabile definire in parallelo la corretta devoluzione dallo Stato alla Regione di titolarità di beni a vario titolo gestiti (beni patrimoniali, beni demaniali, competenza in materia di acque territoriali), per la quale e’ stata avviata, ma non ancora definita, una proficua trattativa con lo Stato.
E’ quindi divenuto ormai indifferibile definire le trattative in corso tra lo Stato e la Regione siciliana con il coinvolgimento degli Enti Locali affinché l’equilibrio finanziario sia garantito e la Regione e i Comuni non subiscano indebite sottrazioni delle entrate agli stessi spettanti, come reiteratamente richiesto dalla Regione al Governo nazionale, trattative che dovranno contemplare anche gli interventi di perequazione infrastrutturale a partire da trasporti, sanità, scuola ed università.
A questo proposito va evidenziato che entrambe le pronunce del Giudice delle leggi (la n.71 come la n.65 del 2012) si inseriscono nel solco delineato dalla giurisprudenza costituzionale sui principi di autonomia di entrata e di uscita riservati alle Regioni a statuto speciale richiamati nel comma 1 dell’art. 119 della Costituzione e nell’art. 1 e 2 della legge n. 42/2009 di attuazione dello stesso.
Tali principi sono stati più volte richiamati dalla giurisprudenza costituzionale: ad esempio con la sent. n. 157/2007 viene valorizzata l’autonomia finanziaria e tributaria quale elemento necessario per tutelare ogni prospettiva dell’autonomia regionale (prima fra tutte quella politica), in linea con la ratio della riforma del Titolo V del 2001.
Al fine di garantire il rispetto di tale principio la Corte si è preoccupata di ricondurre l’intervento legislativo statale oggetto dell’impugnazione (relativo alla compressione dell’autonomia finanziaria e tributaria delle Regioni per contenere il bilancio nei limiti del patto di stabilità) nell’ambito della disciplina di principio e, al tempo stesso, di sottolinearne la transitorietà, quasi riconoscendo con tale seconda precisazione l’esistenza di una (indebita) compressione dell’autonomia finanziaria degli enti interessati, ancorché giustificata da situazioni definite di “emergenza finanziaria”, per lo più legate al rispetto dei noti obblighi comunitari per le politiche di bilancio.
Ciò premesso, l’attuazione delle richiamate disposizioni dello Statuto relative all’autonomia finanziaria deve essere perseguita attraverso l’applicazione, nella ripartizione delle entrate tra lo Stato e la Regione Siciliana, di un principio generale di territorialità dell’imposta, ovverosia con l’attribuzione alla Regione di tutte quelle entrate che siano espressione della capacità fiscale che si manifesta nel territorio della medesima. Tale principio, come ricordato insito nell’art. 36 dello Statuto che delinea il sistema di separatezza delle entrate tra lo Stato e la Regione, è testualmente affermato dall’art. 4 delle correlate norme di attuazione, in materia finanziaria e tributaria che, tuttavia, a tutt’oggi rimane disatteso. Lo stesso principio oggi è utilizzato dal legislatore nell’art.7, comma 1 lett. d) della legge delega 42/09 per la modalità di ripartizione delle entrate erariali alle Regioni.
Come noto, l’impianto delle disposizioni in materia finanziaria dello Statuto siciliano correla le entrate regionali alle funzioni esercitate dalla Regione stessa.

Le funzioni in argomento sono quelle esplicitamente indicate negli artt. 14, 17 dello Statuto. Ai sensi del 1° comma dell’art. 20 dello Statuto, devono considerarsi quali funzioni amministrative proprie della Regione tutte quelle sulle quali, anche in linea di principio, la stessa possa esercitare una competenza legislativa esclusiva o concorrente.
Ciò non significa, ovviamente, che tutte le suddette funzioni siano immediatamente attribuite alla Regione senza che prima la stessa sia dotata delle relative risorse, ma soltanto che, una volta attribuite le risorse di spettanza della Regione, lo Stato potrà individuare fra queste, secondo i criteri di priorità che riterrà più opportuni, un’amplissima gamma di funzioni esecutive ed amministrative da devolvere alla Regione, e quindi non solo nei campi individuati di istruzione, enti locali, sanità ed assistenza, o in quello finanziario indicato dalla Regione, ma anche in tutti quelli che coprono la più ampia competenza legislativa della Regione.
Ne discende che, a prescindere dagli accordi che saranno conclusi nella trattativa avviata, nulla toglie in futuro – se le risorse finanziarie della Regione saranno capienti – che queste funzioni siano progressivamente trasferite dallo Stato alla Regione senza alcuna contropartita finanziaria. Nel presente, tuttavia, potranno essere conferite solo le funzioni coperte dalla disponibilità finanziaria esistente e ciò nel rispetto della giurisprudenza costituzionale sul necessario equilibrio tra le prime e la seconda.
Nel caso in cui l’attribuzione delle entrate di spettanza regionale alla Regione dovesse superare persino l’ambito di competenza regionale, di cui al comma 1 dell’art. 20 dello Statuto, lo Stato può anche devolvere funzioni proprie, ai sensi questa volta del comma 2 del medesimo art. 20, e tuttavia con il mantenimento, per le suddette funzioni statali, di un’amministrazione separata da
quella regionale in cui il Governo regionale, o il Presidente della Regione, agiscano come semplici “delegati” del Governo della Repubblica e sotto le disposizioni dello stesso, e non come titolari di funzioni proprie.
La Regione ha avviato un processo di stima del gettito di spettanza regionale per le entrate non ancora attribuite alla stessa. Si ravvisa, tuttavia, l’opportunità che la quantificazione delle relative maggiori entrate per la Regione e minori entrate per lo Stato sia determinata dalla Ragioneria generale dello Stato che dispone dei migliori dati necessari ad una tale quantificazione.
Sulla scorta di tali dati relativi alle maggiori entrate forniti dallo Stato -,qualora concordanti, anche in linea di massima, con le stime regionali – quest’ultimo lo Stato potrà proporre quali funzioni devolvere alla Regione in modo da consentire la neutralità complessiva dell’attuazione dello Statuto della Regione Siciliana in materia fiscale rispetto agli obiettivi complessivi di controllo dei saldi finanziari della pubblica amministrazione.
Sulle tre classi di entrate erariali (da tabacchi ed ex altri monopoli, accise di produzione, entrate da giochi e scommesse), la Regione potrebbe quindi richiedere l’integrale gettito del “riscosso in Sicilia” e, per quanto concerne le accise (così come previsto dall’art.27 comma 4 della legge 5 maggio 2009, n.42 ed, in particolare, delle accise sui prodotti energetici e sui gas petroliferi liquefatti), anche una significativa compartecipazione al gettito prodotto da quanto immesso in consumo nel territorio nazionale, anche a titolo di ristoro per il pregiudizio ambientale e sociale patito.
Per le altre entrate la devoluzione alla Regione sarà integrale, privilegiando i criteri di attribuzione automatica del gettito, rispetto ai trasferimenti erariali ex post.

Le proposte sin qui illustrate comportano, ovviamente, due conseguenze finanziarie a carico della Regione, oltre a quella più volte ricordata dell’attribuzione di funzioni corrispondenti.
La prima, è che, simmetricamente, la Regione deve riconoscere allo Stato il gettito di tutti quei tributi, il cui soggetto passivo risieda in Sicilia, ma il cui presupposto d’imposta si verifichi nel restante territorio nazionale.

La seconda, è che la Regione rinunci ad ogni forma di compensazione o fondo perequativo per le spese correnti. L’impianto finanziario cui deve propendere l’attuazione del federalismo fiscale è fondato proprio sull’autosufficienza finanziaria e, per questa ragione, ogni trasferimento di parte corrente alla Regione, ma anche agli enti locali siciliani, deve cessare all’attuazione della riforma.
Appare tuttavia necessario che i mancati trasferimenti siano tenuti in considerazione dallo Stato nel decidere il quantum delle funzioni da trasferire alla Regione, che dovranno essere quindi quelle il cui costo, al netto dei suddetti mancati trasferimenti, renda neutrale finanziariamente l’operazione.
La dotazione di risorse aggiuntive per la coesione sociale e territoriale da parte dello Stato alla Regione o agli enti locali siciliani dipenderà esclusivamente dalle politiche di coesione che saranno poste nel rispetto dei richiamati principi dell’art. 119 Cost. e di quelli della l. n. 42 del 2009.

4.2. Il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 26 novembre 2010.

Il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 26 novembre 2010, recante “Disposizioni in materia di perequazione infrastrutturale, ai sensi dell’articolo 22 della legge 5 maggio 2009, n. 42”, cui si accennava prima, dispone la rilevazione dei livelli di servizio offerti al 31 dicembre 2010, per diverse tipologie di infrastruttura e utilizzando indicatori quantitativi e qualitativi, nonché del corrispondente livello di servizio standard, necessario per raggiungere determinati obiettivi di sviluppo economico di medio e lungo termine e di riduzione dei divari territoriali, al fine di pervenire ad una ricognizione propedeutica alla perequazione infrastrutturale.
Il decreto (art. 5) si spinge poi sino ad affermazioni stentoree: “allo scopo di dare immediata ed organica attuazione al processo di perequazione infrastrutturale…….entro 90 giorni dalla pubblicazione del presente decreto, il Ministro dell’economia e delle finanze, d’intesa con il Ministro perle riforme per il federalismo, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministro per la semplificazione normativa ed il Ministro per i rapporti con le regioni e per la coesione territoriale nonché con gli altri Ministri interessati, individuano gli interventi” necessari a superare il divario e che “al fine di perseguire la perequazione infrastrutturale, ai territori caratterizzati da un maggiore fabbisogno infrastrutturale deve essere garantita una quota di risorse pubbliche proporzionale all’entità del fabbisogno ed alla capacita’ di detti territori di razionalizzarlo, in coerenza con l’art. 13 della legge 5 maggio 2009, n. 42 e compatibilmente con i vincoli di bilancio e gli obiettivi di finanza pubblica”, senza nulla precisare su quantificazioni, tempi e forme.

L’attuazione dell’art. 16 della l. n. 42 del 2009, o meglio l’avvio di essa, é stata invece affidata al decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 88 recante “Disposizioni in materia di risorse aggiuntive ed interventi speciali per la rimozione di squilibri economici e sociali, a norma dell’articolo 16 della legge 5 maggio 2009, n. 42”.
Dal tenore delle previsioni del decreto (v. art. 8) emerge che si tratta della prima attuazione dell’articolo 16 della legge 42/2009, alla quale dovrebbero seguire ulteriori provvedimenti applicativi. L’articolo 2 del decreto istituisce il Fondo per lo sviluppo e la coesione (FSC), nel quale confluiscono i finanziamenti a finalità strutturale dell’Unione Europea e nei relativi cofinanziamenti nazionali, destinato al finanziamento della politica di riequilibrio economico e sociale
Il coordinamento delle politiche di coesione è affidato al Ministro delegato per la Politica di coesione economica, che adotta gli atti di indirizzo e di programmazione di competenza statale d’intesa con il Ministro dell’Economia, e che per garantire la tempestiva attuazione dei programmi cofinanziati dai fondi strutturali europei e l’integrale utilizzo delle risorse stanziate dall’Unione europea, può adottare le opportune misure di accelerazione degli interventi, anche con riferimento alle amministrazioni che non risultano in linea con la programmazione temporale degli interventi stessi.
Gli artt. 3 e 4 del decreto legislativo declinano poi le modalità operative dello strumento di finanziamento statale degli interventi aggiuntivi volti al riequilibrio economico e sociale tra le diverse aree del Paese.
Il Fondo di sviluppo e coesione deve garantire una programmazione pluriennale coerente con quella degli interventi finanziati con risorse ordinarie e con quella dei Fondi strutturali europei, volta all’unitarietà e alla complementarietà degli interventi, ed è “finalizzato al finanziamento di progetti strategici, sia di carattere infrastrutturale sia di carattere immateriale, di rilievo nazionale, interregionale e nazionale, aventi natura di grandi progetti” (anche articolati in singoli interventi funzionalmente interconnessi). La dotazione complessiva del fondo è determinata, per l’intero ciclo di programmazione, dal Documento di economia e finanza (DEF) nell’anno precedente all’inizio del nuovo ciclo di programmazione europea.

5. La sentenza della Corte Costituzionale n. 71/2012.

Sulla complessa questione dell’attuazione della perequazione infrastrutturale alle Regioni é intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 71/2012 la quale ha statuito che non trovano diretta ed immediata applicazione nella Regione Siciliana le norme di cui al decreto legislativo 88/2011 che detta disposizione in materia di risorse aggiuntive e interventi speciali per la rimozione degli squilibri economici e sociali secondo l’art. 119 della Carta Costituzionale.

In particolare, con la citata pronuncia la Corte è intervenuta in merito al decreto legislativo n. 88/2011, attuativo dell’art. 16 della legge n. 42/09, rafforzando, anche in questo caso, il ruolo che il legislatore, con l’avvio del processo di riforma in senso federale, ha voluto attribuire alla procedura negoziale tra lo Stato e la Regione siciliana, non potendosi prescindere da questa procedura per l’attuazione di quei principi che sono propri del federalismo fiscale e che non possono risultare in contrasto con le prerogative statutarie.

Più specificatamente, la Consulta, con la sentenza in questione, ha fornito un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni denunciate e si è sostanzialmente espressa in senso favorevole alla Regione, ritenendo, tra l’altro, che ” il decreto legislativo impugnato non trova applicazione nei confronti delle Regioni a statuto speciale neppure per gli interventi di perequazione infrastrutturale (ai quali espressamente si riferisce il comma 2 dell’art. 1 del medesimo decreto legislativo). Infatti l’art. 27 riguarda tutte le misure di perequazione solidaristica, e, quindi anche gli interventi di perequazione infrastrutturale….”
Non ostando a tale conclusione quanto disposto dall’art. 22 della stessa legge di delegazione il quale, pur essendo applicabile agli enti ad autonomia differenziata, non prevede alcuna riserva di competenza alle norme di attuazione degli statuti speciali.
Tale ricognizione a dire del giudice delle leggi – poi disciplinata con il già richiamato decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 26 novembre 2010 – avrebbe funzione meramente conoscitiva. Essa non integrerebbe una disciplina delle modalità di erogazione dei finanziamenti di cui al quinto comma dell’art. 119 Cost., costituendo “solo il supporto cognitivo necessario alla interlocuzione fra Regioni e Stato che – in forza dell’art. 27 – deve avere luogo nell’ambito delle procedure di attuazione statutaria…”? Sicché – conclude la Consulta – “l’efficacia meramente transitoria (in sede di prima applicazione) e la sopra evidenziata peculiare ratio del comma 1 dell’art. 22 rendono tale disposizione lex specialis rispetto all’art. 27 della stessa legge di delegazione e giustificano la sua diretta applicazione agli enti ad autonomia differenziata, senza alcun rinvio alle procedure legislative previste per l’attuazione statutaria. Sotto tale profilo, la sottolineata specialità dell’art. 22 non smentisce, ma conferma, la regola della riserva di competenza alle norme di attuazione degli statuti disposta dall’art. 27 della legge di delegazione”.
Appare di notevole rilievo quanto poi affermato in ordine alla chiara determinazione del legislatore delegante, che nel dare attuazione all’art. 119, quinto comma, Cost. nei confronti delle autonomie speciali, “ha rinunciato – pur non essendo a ciò vincolato dal dettato del citato comma dell’art. 119 – a porre una disciplina unilaterale. Ha preferito infatti, nella sua discrezionalità, regolare la materia mediante il rinvio a norme da determinarsi attraverso le particolari procedure legislative previste per l’attuazione degli statuti speciali” in relazione a quanto puntualmente previsto dall’art. 27 della citata l.n. 42 del 2009.
L’interpretazione prospettata appare particolarmente gravida di conseguenze se riguardata alla luce delle prerogative offerte dagli statuti di autonomia alle Regioni a Statuto speciale, ed in particolare alla Regione siciliana.
La riconosciuta autonomia della posizione della Regione siciliana, nella sentenza sulla programmazione del Fondi sviluppo e coesione, comporterebbe che lo Stato, per il combinato disposto del comma 1 e del comma 5, dell’art.119 Cost., si limiti a prendere atto delle priorità programmatiche regionali. Tale assunto interpretativo di natura costituzionale deve trovare applicazione in maniera completa sia per le risorse Fondo sviluppo e coesione non ancora impegnate e da riprogrammare, sia per le nuove assegnazioni sulle quale la Regione Siciliana mantiene l’autonomia di cui al comma 1, dell’art.119 Cost..
Le procedure fin qui attuate per le risorse Fondo sviluppo e coesione, alla luce della citata sentenza n.71/2012, sopratutto quelle che ne hanno determinato l’unilaterale riduzione, vanno pertanto sottoposte ad ampia rilettura al fine di permettere l’esplicitazione dell’autonomia statutaria pur valutando la portata vincolante dell’Intesa istituzionale di programma siglata fra Stato e Regione e i conseguenti Accordi di Programma Quadro nei limiti in cui conservano efficacia e vigenza giuridica.
Resta tuttavia incontroverso che per osservare il principio della coerenza programmatica e della leale collaborazione tra Stato e Regioni, le politiche regionali devono perseguire obiettivi in linea con gli orientamenti strategici dell’Unione Europea e dello Stato membro.
Per quanto concerne l’interpretazione dell’autonomia regionale della sentenza della Corte costituzionale n.71/2012 alla programmazione dei fondi strutturali va rilevata la sua applicabilità fermo restando che per la programmazione in corso si sono adottati percorsi negoziali e di accordo che conservano rilevanza giuridica cogente (vd. efficacia giuridica del Q.S.N.). Per la programmazione comunitaria futura – sulla quale sono in corso diversi tavoli tecnici di confronto tra le Regioni e lo Stato membro e di elaborazione di documenti preparatori – occorre che la Regione Siciliana ridefinisca i propri ambiti di autonomia statutaria con lo Stato e nei confronti dell’Unione europea tenuto conto della natura integrata dei fondi.

Del tutto ininfluente, ai fini dell’applicabilità alla Regione siciliana – come da questa sostenuto anche in sede di Conferenza Stato-Regioni -, é stato ritenuto dal giudice costituzionale quanto previsto dalla l. 8 giugno 2011, n. 85 (recante “Proroga dei termini per l’esercizio della delega di cui alla legge 5 maggio 2009, n. 42, in materia di federalismo fiscale”), con l’art. 1, comma 1, lettera e), ha aggiunto all’art. 16 della legge di delegazione n. 42 del 2009, con effetto dal 18 giugno 2011, il comma 1-bis.

Con tale disposizione, addirittura modificatrice della normativa fondamentale sul federalismo fiscale, si era tentato di porre riparo alle censure che la Regione aveva esplicitato nelle sedi istituzionali. Ma opportunamente il giudice delle leggi ha ritenuto del tutto ininfluente tale modifica normativa, alla quale, invece, la difesa statale si era appellata per richiedere il rigetto del ricorso.

Direttamente applicabile alle Regioni ad autonomia differenziata viene invece ritenuto l’art. 22, comma 1, il quale pur non incidendo sulla disciplina sostanziale delle misure di cui al quinto comma dell’art. 119 Cost., si limiterebbe a porre alcuni criteri procedurali per la loro applicazione «in sede di prima applicazione», disciplinando infatti la «ricognizione degli interventi infrastrutturali, sulla base delle norme vigenti, riguardanti le strutture sanitarie, assistenziali, scolastiche nonché la rete stradale, autostradale e ferroviaria, la rete fognaria, la rete idrica, elettrica e di trasporto e distribuzione del gas, le strutture portuali e aeroportuali».
In conclusione la sentenza sopra richiamata emessa sulla grande questione della perequazione infrastrutturale sancisce su tale tema il principio della negoziazione fra Stato e Regione, restando inibita ogni possibilità di unilaterale intervento legislativo.
Al Fondo di Solidarietà Nazionale si dovrebbero ricondurre – ed adesso con il conforto dell’interpretazione della Corte costituzionale – le forme di perequazione ex art. 22 della L. 42/09, nell’alveo delle previsioni di cui art. 38 dello Statuto regionale siciliano, secondo quanto chiaramente disposto dallo Statuto stesso e confermato dalla richiamata pronuncia della Corte costituzionale n. 71/2012.
E’ di tutta evidenza che le risorse per la perequazione infrastrutturale non possano in alcun modo ridursi a quelle previste dalle politiche di coesione di fonte comunitaria, queste ultime infatti, come prescritto, oltre che dall’ordinamento europeo settoriale, anche dall’art. 1 della stessa sul federalismo fiscale.
Giusta la norma richiamata, infatti, vengono individuate tra le finalità della riforma “…..l’utilizzazione delle risorse aggiuntive e l’effettuazione degli interventi speciali di cui all’articolo 119, quinto comma, della Costituzione perseguendo lo sviluppo delle aree sottoutilizzate nella prospettiva del superamento del dualismo economico del Paese”.
Mentre al successivo art. 16 della stessa legge si determinano i criteri direttivi tra i quali, alla lett.a), si individua la “definizione delle modalità in base alle quali gli interventi finalizzati agli obiettivi di cui al quinto comma dell’articolo 119 della Costituzione sono finanziati con contributi speciali dal bilancio dello Stato, con i finanziamenti dell’Unione europea e con i cofinanziamenti nazionali, secondo il metodo della programmazione pluriennale” specificando puntualmente che ” i finanziamenti dell’Unione europea non possono essere sostitutivi dei contributi speciali dello Stato”. Analoga previsione si rinviene poi all’art. 2 primo comma del già richiamato d.lgs n. 88 del 2011 che conferma la portata aggiuntiva delle risorse previste dall’art. 22 della l.n. 42 del 2009, che “non possono sostituire quelle per le spese ordinarie stanziate nel bilancio dello Stato e degli enti decentrati”.
In altre parole, il carattere “aggiuntivo” dell’intervento infrastrutturale europeo non può essere aggirato, in via di fatto, dalla cancellazione di ogni intervento speciale dello Stato ai sensi dell’art.
119 della Costituzione.

La segnalata tendenza assume connotati a dir poco paradossali – per non qualificarli addirittura come assurdi – quando alla drastica riduzione degli interventi per il finanziamento dell’ammodernamento infrastrutturale del Mezzogiorno si aggiunge la surrettizia ricomprensione delle quote di finanziamento (statale e regionale) nel patto di stabilità interno (PSI). Che – tra l’altro
– insieme ai pesanti ritardi delle grandi società di Stato (sopratutto Ferrovie. ANAS, ma anche le autorità portuali), alle quali obbligatoriamente la Regione deve affidare la progettazione, é una delle principali cause dei troppo lenti tempi di impiego delle risorse dei fondi strutturali.
E’ indubbio, infatti, che i vincoli imposti dal Patto di Stabilità interno dello Stato italiano costituiscano un freno alla spesa e limitino fortemente la dinamica attuativa dei programmi operativi. Condizionalità ormai più grave nel caso delle linee di intervento i cui beneficiari sono in larga misura enti territoriali di livello sub regionale i quali, anche a causa dei tagli sui fondi ordinari, hanno serie difficoltà ad effettuare pagamenti sugli interventi cofinanziati.
Occorre quindi superare tale criticità e assicurare un’effettiva accelerazione della dinamica finanziaria, anche in funzione anticiclica al pieno impiego dei fondi strutturali.

L’attuazione dell’autonomia finanziaria e tributaria della Sicilia – é innegabile – trova un robusto sostegno nelle previsioni della legge sul federalismo fiscale, meno nei decreti applicativi, che, peraltro, risulta rafforzato dalla lettura che di tale autonomia ha fatto la Corte Costituzionale con le sentenze in precedenza richiamate, queste statuendo su una sorta di actio finium regundorum, hanno consentito di riportare integralmente alla sede negoziale tra Stato e Regione la declinazione di tale autonomia e l’individuazione delle misure di perequazione fiscale e infrastrutturale che, nel frattempo, sono state messe da canto nell’attuazione complessiva della riforma, alterandone la portata e conducendola a confliggere con lo stesso fondamento costituzionale di cui all’art. 119.

Si attende ancora che i tavoli di confronto, così come li definisce l’art. 27 della l. n. 42 del 2009, si insedino (anche se le autonomie differenziate del nord hanno già concluso accordi rilevanti, mentre Sardegna e Sicilia hanno reiteratamente richiesto al Governo di attivarsi) e conducano a quegli accordi ampi che qualificano sempre più l’autonomia differenziata sul piano della negoziazione e della trattativa poi declinata sul piano regolativo attraverso le norme di attuazione degli statuti.
Da queste basi di rafforzamento della negoziazione occorre ripartire per rilanciare l’autonomia speciale quale “autonomia della responsabilità“, nella quale non possono più trovare giustificazione privilegi e garanzie insostenibili in tempo di forti difficoltà finanziarie.
Carte e conti in regola sono indispensabili per riqualificare la Sicilia e per consentire di restituirle quella credibilità e quella reputazione che purtroppo anni di clientelismo e di gestione dissennata della finanza pubblica hanno generato, creando micro-ritorni politici che hanno favorito questa o quella carriera, ma che purtroppo hanno determinato altresì una devastazione in termini di razionale organizzazione delle strutture e disequilibrio nell’impiego delle risorse economiche.
D’altro canto é fuor di dubbio, anche per i vincoli di bilancio sanciti a livello europeo, che l’autonomia differenziata della Regione siciliana sia chiamata ad un supplemento di responsabilità. Superata una fase nella quale esse é stata concepita come mera autonomia di spesa (troppo spesso irresponsabile e clientelare), occorre quindi che si viri decisamente verso un uso virtuoso delle
speciali prerogative offerte dallo Statuto di autonomia, dando corpo alla loro naturale vocazione a porsi, secondo modello originario, “non già quale potere bensì quale servizio per la collettività”.
Soltanto un Paese coeso può ambire a ripartire ed in questo senso la ripresa di valore dei temi della coesione territoriale, economica e sociale e della perequazione infrastrutturale risultano essenziali.
Ed in tal senso la revisione costituzionale intrapresa dal legislatore appare un’occasione importante per riportare tali questioni al centro del confronto tra le forze politiche e sociali.

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