L’AUTONOMIA SICILIANA TRA OBLIO E RILANCIO NELLA PROSPETTIVA DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE
di Gaetano Armao (Docente di diritto amministrativo europeo e contabilità pubblica nell’Università di Palermo)
La storia delle istituzioni autonomistiche siciliane offre la cifra di quel che è stata la specialità, di quel che avrebbe potuto essere sol che avesse prevalso la fedeltà ai valori dei fondatori, ma sopratutto di quel che può divenire affrontando i nodi di una trama apparentemente inestricabile di fattori esogeni ed endogeni di crisi.
Se i limiti strutturali dello Statuto, tra i quali l’assenza di una genesi e di strumenti di partecipazione democratica, la sistematica destrutturazione e disapplicazione da parte degli organi dello Stato, l’imponente invadenza dei partiti nazionali e della loro deriva (la partitocrazia) che hanno instaurato un sistema clientelare per assicurare il consenso utilizzando risorse pubbliche per consolidare il potere centrale hanno determinato il ‘degrado istituzionale e finanziario’ nel quale è precipitata la specialità, la prevalente gestione di classi dirigenti imbelli, compromesse, quando non addirittura criminali ha fatto il resto per condurre all’attuale situazione di “coma indotto da asfissia finanziaria e burocratica”.
Per taluni l’autonomia si sarebbe trasformata così in trappola, rendendo ancora più cupo il ritratto di un’Isola irredimibile, attanagliata dalle sue contraddizioni, nella quale una minorità antropologica impedirebbe ogni forma di autogoverno.
D’altra parte è stato rimproverato all’autonomia speciale che, al netto di alcune innovazioni (l’ordinamento degli enti locali, in particolare l’elezione diretta dei sindaci, la pianificazione urbanistica, l’ordinamento dei beni culturali con la creazione delle Soprintendenze uniche e poche altre), ha determinato il ritardo nell’applicazione di riforme già definite dal legislatore statale, divenendo in tal guisa come la grande muraglia cinese che, concepita per difendere la Cina dai nemici, ne divenne causa di isolamento per centinaia di anni.
Si attribuiscono così allo Statuto le responsabilità del malgoverno e dei privilegi della politica ritenendo che solo un nuovo accentramento possa offrire sviluppo alla Sicilia. Argomenti che, se impongono di riformare con solerzia l’autonomia, non convincono tuttavia ad archiviarla. A meno di non restar vittime della sindrome del martello; quella del maldestro neofita del bricolage che utilizza un martello come una clava, se lo da sul dito e poi se la prende con l’utensile gettandolo via: non porterà mai a termine l’opera e si priverà di uno strumento essenziale.
Al netto di alcuni rigurgiti di dignità è incontrovertibile che le istituzioni regionali siano state governate per consolidare il potere dei partiti e dei gruppi imprenditoriali e sindacali nazionali. Anche molti privilegi dei ‘cacicchi’ – siano essi politici, burocrati, sindacalisti, dirigenti di partecipate ecc. – sono stati costruiti non perché lo prevedesse lo Statuto speciale, ma consentiti come ‘mancia’ della politica statale a quella regionale per i servigi resi.
Non può essere un caso, al di là delle ovvie differenze culturali, che lì dove l’autonomia speciale ha funzionato meglio (Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta) le forze politiche preminenti hanno una matrice prettamente territoriale ed autonomista nel prisma di un dato acquisito: le istituzioni sono tanto più efficienti quanto più forte è la capacità di controllo dei cittadini sui governanti e questi ultimi trovano legittimazione nel consenso popolare e non su scelte operate dalle centrali dei partiti nazionali.
Molte vicende, talune emblematiche di una concezione strumentale dell’autonomia, evidenziano un uso distorto dell’istituto autonomistico per finalità clientelari e non per creare un’opportunità, un vantaggio, una chance di competitività per la Sicilia. Ma senza perdere di vista le cause delle difficoltà e del (crescente) divario economico-sociale e l’esigenza di risolverlo rilanciando piuttosto che rinunciando alle prerogative statutarie.
Occorre aggiungere che peculiare storia e collocazione geografica della Sicilia si collegano con la storia e l’esperienza europea. Non c’è, infatti, alcuna grande isola o arcipelago del Continente che non sia Stato o Regione con particolare autonomia. E per questo l’Europa riconosce l’insularità ed appronta strumenti di vantaggio volti a garantire l’effettività dell’eguaglianza e la coesione economico-territoriale.
Sicché non è solo antistorico, dannoso per affrontare il crescente divario, ma addirittura in contrasto con i principi dei Trattati UE, immaginare di ridurre i margini di autonomia della Sicilia.
Lo Statuto speciale, ottenuto sulla base di un’esperienza che affonda le proprie radici nel costituzionalismo europeo, è il risultato di battaglie ideali e di spinte di interessi regionali, ma anche da pulsioni e brame provenienti da Paesi esteri, come il libro ricorda.
L’Italia, terminata la seconda guerra mondiale, ha dovuto riconoscere l’autonomia speciale, anche per scongiurare le forti spinte indipendentiste, salvo poi a svilirne la portata in una sorta di ‘bradisismo istituzionale’ che l’ha progressivamente depotenziata (non senza l’avallo della giurisprudenza costituzionale e di una lettura distorta dell’interesse nazionale e delle competenze statali c.d. trasversali con le conseguenza di esautorare la potestà legislativa regionale).
A questo vanno aggiunte le gravissime responsabilità della politica siciliana, dominata da esponenti che, attraverso ritardi ed inerzie, hanno trasformato l’autonomia normativa in una zavorra ed ingrossato, invece, i ranghi di un apparato burocratico con finalità prevalentemente clientelari ed effetti depressivi per l’economia, l’efficienza delle imprese e la qualità della vita dei cittadini.
Sicché occorre chiedersi, parimenti, e senza infingimenti, quanto l’inefficienza, le occasioni perdute, le incompiute infrastrutturali, i paradossi della Regione-imprenditrice, i privilegi per taluni amministratori e loro clienti abbia condotto a quel che sembra l’ineludibile “oblio dell’autonomia”.
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